Il debito estero che i Paesi dell’Africa subsahariana hanno accumulato in questi ultimi anni è una questione irrisolta. Dopo la grande campagna abolizionista, promossa in occasione del Grande Giubileo del 2000, si è ancora in una situazione di emergenza, che potrebbe avere un impatto devastante per la vita di milioni di persone. L'impegno del mondo cattolico.
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«Una bomba a orologeria», così gli economisti definiscono il debito estero che i Paesi dell’Africa subsahariana hanno accumulato in questi ultimi anni. Un ordigno pronto a esplodere e a colpire soprattutto la popolazione più povera chiamata a pagare sulla propria pelle le politiche economiche inadeguate dei loro leader politici.
Eppure negli anni Novanta una grande coalizione di organizzazioni non governative condusse una campagna il cui scopo fu quello di ottenere l'abolizione del debito per l'anno del Grande Giubileo, il 2000. In occasione del Giubileo, tra l’altro, anche Papa Giovanni Paolo II si espresse pubblicamente in favore della cancellazione del debito con la lettera apostolica «Tertio Millennio Adveniente». A questa campagna seguirono iniziative di remissione e, a partire dal 2005, pareva iniziato un periodo di crescita e di sviluppo. Ma che cos’è capitato? Perché si è arrivati a una situazione di emergenza? E quali sono i numeri di questa emergenza? Per comprendere meglio il fenomeno è opportuno fare un passo indietro.
«Il decennio perduto»
Con l’indipendenza ottenuta negli anni Sessanta, molti Paesi africani lanciano programmi di sviluppo e infrastrutturali per far crescere le proprie economie. I governi non possono fare conto su un risparmio consistente, né su entrare fiscali consistenti. Diventa quindi necessario rivolgersi ad attori esterni per procurarsi le risorse necessarie, nella speranza che lo sviluppo produca entrate sufficienti a ripagare i debiti contratti.
Un grosso flusso dei finanziamenti arriva con la crisi petrolifera del 1974 che determina un’alta inflazione e bassi tassi di interesse. Indebitarsi è quindi conveniente e anche i Paesi africani iniziano a contrarre debiti. Nel 1979 si determina una seconda crisi petrolifera, ma è anche il momento in cui si affermano i governi neoliberisti di Ronald Reagan e di Margareth Thatcher che mettono in atto politiche restrittive che provocano rialzi violenti dei tassi di interesse. A queste politiche si associa il desiderio degli Usa di aumentare il valore del dollaro per abbassare il costo delle importazioni. Tassi di interessi alti e dollaro alle stelle mettono in ginocchio l’Africa che si trova di fronte a prestiti che lievitano continuamente fino a diventare non più restituibili. Nel 1982 c’è una prima dichiarazione di insolvenza dei Paesi latinoamericani e africani.
«Se queste sono le ragioni principali del debito, ce ne sono altre minori – spiega Riccardo Moro, professore di Scienze sociali per la globalizzazione -. Prima tra esse, l’impiego del debito. I Paesi africani utilizzano i soldi ricevuti non solo per progetti di sviluppo, ma anche per impieghi non utili. In alcune nazioni i finanziamenti sono utilizzati per sussidiare i prezzi dei beni di prima necessità. Ciò significa che non sono impiegati per un uso produttivo, ma per un bene che si esaurisce al momento. A volte si acquistano di armamenti: un uso non produttivo ed eticamente non accettabile. A volte, ancora, sono stati investiti per le famose “cattedrali nel deserto”. La situazione diventa insostenibile e quegli anni vengono ricordati come “il decennio perduto”, il decennio in cui non si è potuto investire nello sviluppo del continente».
Dalla crisi alla soluzione
Di fronte a questa situazione, vengono messe in atto le famigerate politiche di aggiustamento strutturale. Europa e Nord America aumentano il flusso di risorse pubbliche a credito per mettere i Paesi africani e latinoamericani nelle condizioni di sanare le loro posizioni verso le istituzioni commerciali private da cui avevano contratto i debiti. Alle istituzioni finanziarie internazionali viene poi affidato il compito di indirizzare le politiche di sviluppo nei Paesi del Sud del mondo. Vengono così imposte politiche neoliberiste che hanno come capisaldi la riduzione dell’intervento statale, l’abbassamento della pressione fiscale, l’abolizione dei dazi, il potenziamento delle monocolture, i tagli alla spesa sociale. Politiche che, invece di produrre effetti positivi, portano a uno strozzamento delle economie locali
Tutto ciò termina negli anni Duemila con l’Iniziativa per la cancellazione del debito dei Paesi più poveri e indebitati (Heavily Indebted Poor Countries, Hipc). La prima di queste è lanciata nel 1996 e coinvolge sei Paesi. Nel 1999 ne viene lanciata una seconda campagna che interessa 41 Paesi, 26 africani. È in questo contesto che si definisce la soglia sostenibilità di debito (oltre al quale il debito va cancellato) e si stabilisce che la cancellazione sia legata alla lotta alla povertà. I Paesi del Sud del mondo diventano protagonisti definendo con metodi trasparenti i programmi di intervento per favorire lo sviluppo aumentando anche la spesa sociale. Questa seconda campagna giunge nell’arco di una decina di anni alla soluzione del problema del debito. Dal 2000 al 2006 vengono cancellati 100 miliardi di debiti e nei 26 Paesi africani che hanno beneficiato della Hipc e della Mdri (Multilateral Debt Relief Initiative iniziativa adottata dal G8 nel vertice di Gleneagles nel giugno 2005), il debito pubblico sul Pil è sceso dal 104 al 27%, per poi risalire al 34% nel 2011, mantenendosi comunque a livelli minori di molti Paesi della zona euro.
Nuovo debito
Agli inizi di questo decennio, la crisi debitoria sembra così svanita e pare aprirsi una stagione di crescita. In realtà, la situazione torna a farsi preoccupante. La crisi finanziaria del 2007-2008 ha provocato un forte calo dei tassi di interesse nei Paesi occidentali e un rallentamento della crescita di quelli asiatici. Per mantenere alti i profitti, gli investitori internazionali vanno quindi in cerca di alternative che trovano nei titoli di Stato dei Paesi produttori di materie prime. A questi Paesi, a loro volta, conviene prendere denaro a prestito a basso costo ripagandoli con le entrate delle stesse materie prime (che per anni sono cresciuti).
Come già avvenuto in passato questi fondi non sono investiti sempre in modo oculato. In Ghana, per esempio, il nuovo governo entrato in carica nel 2017 ha scoperto che un prestito di 1,8 miliardi di dollari per aumentare la produzione di cacao «si è volatilizzato». Lo stesso avviene in Mozambico, dove un prestito di 2 miliardi di dollari viene sperperato per acquistare attrezzature di sicurezza inefficaci e una flotta di pescherecci che non ha mai preso il mare.
Nel 2018, in molti Stati il prezzo del debito sale per la prima volta oltre il 50% (Uganda 57%, Tanzania 63%, Zimbabwe 88%). In Angola, Ghana, Nigeria la situazione è più grave. Qui il crollo del prezzo del greggio ha portato a un dimezzamento delle entrate statali e il peso degli interessi inizia a farsi sentire. In Nigeria, secondo alcune previsioni, nel 2019 gli interessi sul debito supereranno le entrate della vendita di greggio. Ghana. Il Paese è di fatto già entrato in una fase molto difficile. Con un debito pubblico superiore al 60% del Pil il Paese, anche a seguito della caduta del prezzo del cacao e dell’oro, ha dovuto chiedere aiuto al Fmi per pagare i debiti acquisti attraverso obbligazioni sovrane. Per far fronte alle difficoltà economiche e alla decelerazione della crescita derivanti dal crollo dei prezzi del petrolio, l’Angola, la seconda potenza petrolifera dell’area sub sahariana, ha chiesto e ottenuto dalla Cina un prestito di sei miliardi di dollari. Di conseguenza l’indebitamento aumenterà dal 32% al 46% del Pil.
«Molti Paesi africani hanno avuto accesso per la prima volta al mercato obbligazionario in valuta straniera – spiega l’economista Paolo Raimondi -. Ciò è stato presentato come una grande opportunità di sviluppo per l’Africa e di grandi investimenti nelle sue infrastrutture. Oggi questi processi devono essere osservati con grande attenzione. La caduta dei prezzi delle materie prime, la svalutazione delle monete nazionali relativamente al dollaro e all’euro, una possibile, e inevitabile, risalita dei tassi di interesse negli Usa sono tutte evoluzioni che in Africa andranno a scontrarsi con il crescente debito e con il conseguente aumento del rischio».
Il rischio è che per ridurre il debito si proceda al taglio degli investimenti in infrastrutture e delle spese sociali. «Il taglio degli investimenti – spiega Abebe Shimeles della Banca africana di sviluppo – bloccherebbe progetti già avviati. Questa sarebbe quindi una scelta sbagliata. La soluzione, come suggerisce anche il Fmi, sarebbe quella di strutturare meglio i sistemi fiscali e migliorare il rapporto tra tasse e ricchezza». Se non si interviene subito il peso del debito potrebbe tornare a schiacciare la gente comune.
Cattolici in campo
Proprio in queste settimane, il mondo cattolico sta tessendo un’ampia rete di alleanze a livello diplomatico e internazionale a cominciare dall’Italia per evitare che il debito dei Paesi strutturalmente poveri o ulteriormente impoveriti da questi anni di crisi economica, possa diventare un macigno insostenibile per le popolazioni, frenare lo sviluppo, limitare la libertà delle nazioni, determinare violazioni di fondamentali diritti umani. A promuovere concretamente l’iniziativa, un gruppo di studiosi appartenenti a diverse istituzioni, guidati da Raffaele Coppola direttore del centro «Renato Beccari». L’iniziativa gode anche del sostegno della Segreteria di Stato Vaticana e del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale (ex Giustizia e Pace). L’obiettivo è arrivare a un voto dell’assemblea generale delle Nazioni Unite che chieda un parere alla Corte di giustizia internazionale dell’Aja in merito al modo in cui viene gestito il debito internazionale. Lo scopo è verificare se si configurino violazioni dei diritti umani e dei popoli e creare un precedente giuridico che possa servire per il futuro.
«I costi dei prestiti inesigibili – osserva Bernard Anaba dell’Integrated Social Development Center – difficilmente ricadono sui leader e sui creditori che spesso inducono i politici a contrarre altri debiti. Chi paga di più è l’uomo comune che si vede tolti quei servizi essenziali di cui ha bisogno: scuola, sanità, infrastrutture.».
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Deuda externa en África: una espada de Damocles sobre millones de pobres
“Una bomba de relojería”, así definen los economistas la deuda externa que los países del África Subsahariana han acumulado en los últimos años. Un artefacto listo para explotar y alcanzar, sobre todo, a la población más pobre que está llamada a sufrir en su propia piel las nefastas políticas económicas de sus líderes políticos.
En los años 90 una gran coalición de organizaciones no gubernamentales llevo a cabo una campaña cuyo objetivo era la condonación de la deuda externa y que puso en marcha con motivo del Jubileo del Año 2000. Entonces también el Papa Juan Pablo II se manifestó públicamente a favor de la eliminación de la deuda a través de la carta apostólica “Tertio Millennio Adveniente”.
Las iniciativas en esta línea continuaron hasta que en 2005 se entró en un periodo de crecimiento y desarrollo. ¿Qué ha sucedido?, ¿por qué se ha llegado a una situación de emergencia?, ¿cuáles son los números de esta emergencia? Para entender mejor la situación es necesario remontarse al pasado.
“La década perdida”
Con las independencias conseguidas en los años 60, muchos países africanos lanzaron programas de desarrollo e infraestructuras para hacer crecer sus economías. Los gobiernos no podían servirse de sus ahorros ni tampoco introducir nuevos impuestos. Por ello, echaron mano de actores externos para obtener los recursos necesarios con la esperanza de que el desarrollo futuro pudiera posibilitar unos ingresos suficientes como para pagar las deudas contraídas.
Con la crisis petrolífera de 1974 llegó un gran flujo de financiación que se acompañó de una alta inflación y de bajos intereses. Endeudarse, por tanto, fue posible también para los países africanos que comenzaron a contraer deudas. En 1979 estalló una nueva crisis petrolífera pero eran los años de los gobiernos neoliberales de Ronald Reagan y Margareth Thatcher y esta vez se pusieron en marcha políticas restrictivas que dieron lugar a altos tipos de interés. A estas medidas se unió el interés de Estados Unidos por alzar el valor del dólar con el fin de rebajar el coste de las importaciones. Altos intereses y dólar por las nubes dieron como resultado un continente africano sometido y obligado a hacer frente a unos préstamos que comenzaban a ser imposibles de afrontar. En este contexto, en 1982 se produjo una primera declaración de insolvencia de algunos países latinoamericanos y africanos.
“Estas son las razones principales de la deuda pero hay otras, -explica Riccardo Moro, profesor de Ciencias sociales para la globalización-. Entre ellas, el uso del crédito. Los países africanos usaron el dinero recibido, no solo para proyectos de desarrollo, sino también para otras cosas inútiles. En algunos países, la financiación se empleó para subvencionar los bienes de primera necesidad. Eso significa que no se empleó con fines productivos sino para bienes que se consumen en el momento. En otras ocasiones, se usó para comprar armamento, un uso no productivo y éticamente inaceptable. También se utilizó para las inversiones de las famosas “catedrales en el desierto”. La situación se hizo insostenible y aquellos años se recuerdan como “la década perdida”, la década en la que no se pudo invertir en el desarrollo del continente”.
De la crisis a la solución
De cara a esta situación se pusieron en marcha las conocidas políticas de ajuste estructural. Europa y Norte América aumentaron los recursos públicos a crédito para colocar a los países latinoamericanos y africanos en condiciones de responder a los organismos comerciales privados con los que habían contraído deudas. A las instituciones financieras internacionales se les confió el deber de reconducir las políticas de desarrollo de estos países. Se impusieron de este modo políticas neoliberales que tuvieron basadas en la reducción del intervencionismo estatal, la rebaja de la presión fiscal, la abolición de los deberes y el recorte de los gastos sociales. Fueron políticas que, en lugar de producir efectos positivos, llevaron a un estrangulamiento de las economías locales.
Todo ello termina en el 2000 con la iniciativa a favor de la condonación de la deuda para los países pobres y endeudados (Heavily Indebted Poor Countries, Hipc). La primera de estas campañas se lanzó en 1996 y se centró en 6 países. En 1999 se lanzó una segunda campaña que alcanzaba a 41 países, 26 de ellos de África. Es en este contexto en el que se define el umbral de sostenibilidad de la deuda (por encima del que la deuda se cancela) y se establece que la condonación esté unida a la lucha contra la pobreza. Los países del sur se convierten en protagonistas defendiendo con métodos transparentes sus programas de intervención para favorecer el desarrollo aumentando también el gasto social. Esta segunda campaña propone solucionar en una década el problema de la deuda.
Del 2000 al 2006 se cancelaron 100.000 millones de la deuda y 26 países africanos se beneficiaron de la Hipc y de la Mdri (Multilateral Debt Relief iniciativa adoptada por el G8 en la cumbre de Gleneagles de junio de 2005), y la deuda pública sobre el PIB bajó del 104 al 27%, para después subir al 34% en el 2011, manteniéndose más baja que la de muchos países de la zona euro.
Nueva deuda
Al comienzo de esta década, la crisis de crédito parecía cosa del pasado y se abría una época de crecimiento. En realidad, la situación comenzaba a ser preocupante. La crisis financiera del 2007-2008 provocó una fuerte caída de los tipos de interés en los países occidentales y una ralentización del crecimiento en los asiáticos. Para mantener altos los beneficios, los inversores internacionales buscaron alternativas que encontraron en los títulos soberanos de los países productores de materias primas. A estos países, a su vez, les venía bien la inyección de dinero a precio bajo que podían pagar con la provisión de las mismas materias primas (que durante años experimentaron un crecimiento).
Como sucedió en el pasado, estos fondos no se invirtieron de forma prudente. En Ghana, por ejemplo, el nuevo gobierno que tomó posesión en 2017 descubrió que se había evaporado un préstamo de 1.800 millones de dólares para aumentar la producción de cacao. Lo mismo sucedió en Mozambique donde un préstamo de 2.000 millones de dólares fue usado para la compra de instrumentos de seguridad ineficaces y una flota pesquera que jamás ha salido a navegar.
En 2018, el precio del crédito para muchos estados creció por primera vez por encima del 50% (Uganda 57%, Tanzania 63%, Zimbaue 88%). En Angola, Ghana y Nigeria la situación es todavía más grave.
Aquí la caída del precio del crudo ha llevado a una reducción de los ingresos estatales por lo que el peso de los intereses está comenzando a notarse. En Nigeria, según algunas previsiones, para el 2019 los intereses de la deuda superaran los ingresos por venta de crudo. Ghana ya ha entrado en una etapa difícil. Con una deuda pública superior al 60% del PIB ha padecido la caída del precio del cacao y del oro y ha tenido que pedir ayuda al FMI para pagar las deudas adquiridas a través de las obligaciones soberanas. Para hacer frente a las dificultades económicas y a la desaceleración del crecimiento derivadas de la caída del precio del petróleo, Angola, la segunda potencia petrolífera del área subsahariana, ha pedido y obtenido de China un préstamo de seis mil millones de dólares. Por tanto, el endeudamiento crecerá del 32% al 46% del PIB.
“Muchos países africanos tuvieron acceso por primera vez al mercado de obligaciones en moneda extranjera, -explica el economista Paolo Raimondi-. Aquello se presentó como una gran oportunidad de desarrollo para África y de grandes inversiones en infraestructuras. Estos procesos se deben observar con mucho cuidado. La caída de los precios de las materias primas, la devaluación de las monedas nacionales con respecto al dólar y al euro y una posible e inevitable subida de los tipos de interés en USA son fenómenos que para África chocarán con la deuda y, por tanto, con el consiguiente aumento del riesgo”. El riesgo es que, para reducir la deuda, se lleve a cabo un recorte de las inversiones en infraestructuras y gasto social. “El recorte de las inversiones,- explica Abebe Shimeles del Banco africano de desarrollo-, bloquearía los proyectos en curso. Esta sería, por tanto, una elección equivocada. La solución, que sugiere incluso el FMI, sería estructurar mejor los sistemas fiscales y mejorar la relación entre impuestos y riqueza”. Si no se interviene pronto, el peso de la deuda podría volverse asfixiante para los ciudadanos de a pie.
Católicos en marcha
Precisamente en estas semanas, el mundo católico está tejiendo una amplia red de alianzas diplomáticas e internacionales, encabezada por Italia, para evitar que la deuda de los países estructuralmente pobres o empobrecidos por estos años de crisis económica se convierta en un peso insostenible para las poblaciones, frene el desarrollo, limite la libertad de los países y conduzca a violaciones de los derechos humanos fundamentales.
La iniciativa está promovida por un grupo de expertos de varias instituciones capitaneados por Raffaele Coppola, director del centro “Renato Beccari”. El proyecto goza del apoyo de Secretaría de Estado Vaticana y del Dicasterio para el Servicio del Desarrollo Humano Integral. El objetivo es que la Asamblea General de la ONU solicite al Tribunal de Justicia de la Haya un dictamen sobre el modo de gestionar la deuda internacional. Se pretende verificar si se han producido violaciones de los derechos humanos y de los pueblos y posibilitar un precedente jurídico que pueda usarse en el futuro.
“Los costes de los préstamos inextinguibles, -indica Bernard Anaba del Integrated Social Development Center-, raramente recaen en los líderes o los solicitantes que, en muchas ocasiones, inducen a los políticos a contraer elevadas deudas. Quien más lo paga es el ciudadano común que ve reducidos los servicios esenciales como la sanidad, la educación o las infraestructuras”.