Sale la tensione con scontri che hanno provocato numerosi morti sia tra gli anglofoni sia tra le forze dell’ordine. Per i vescovi del Camerun la soluzione è una maggiore attenzione alle diversità che convivono nel paese: "C’è un problema di ingiustizia che va risolto attraverso il dialogo".
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È una crisi annunciata quella scoppiata nelle province occidentali del Camerun. Da anni si sapeva dell’insoddisfazione delle popolazioni anglofone, che si sono sempre sentite marginalizzate dal governo centrale. Si conosceva il loro malcontento e si temeva che, prima o poi, sarebbe esploso. Probabilmente il governo centrale di Yaoundé ha sottovalutato il rischio e, quando ha deciso di affrontarlo, lo ha fatto in modo duro, scatenando una reazione altrettanto dura da parte della popolazione locale. Il risultato è la crescita della tensione con scontri che hanno provocato numerosi morti sia tra gli anglofoni sia tra le forze dell’ordine.
Per comprendere questa crisi bisogna fare un salto indietro nella storia. La Conferenza di Berlino del 1884 che aveva suddiviso l’Africa in aree di influenza (di fatto aveva spartito il continente tra le potenze europee) aveva assegnato il Camerun alla Germania. Il Paese era così diventato una colonia del kaiser tedesco come Namibia, Tanzania e Togo. Alla fine della Grande guerra, sconfitta la Germania, Francia e Gran Bretagna, le potenze vincitrici, si sono divise le sue colonie. Il Camerun è stato frazionato in due parti. La regione occidentale è stata annessa alla Nigeria ed è finita sotto l’influenza britannica. Il resto del Paese è invece diventato una colonia francese. Questo equilibrio si è mantenuto intatto fino al 1° gennaio 1960 quando il Camerun francese è diventato indipendente da Parigi. Di fronte a questa indipendenza, la parte anglofona del Camerun si è spaccata. Una parte è rimasta con la Nigeria, l’altra ha deciso, tramite un referendum, di riunirsi con il Camerun. L’annessione si basava su un’intesa che prevedeva la creazione di uno Stato federale che permettesse a ciascuna delle due componenti della società di mantenere una propria autonomia culturale e linguistica, pur nell’unità statale. E, infatti, nell’agosto 1961, il Parlamento di Yaoundé ha approvato una Costituzione federale che è poi entrata in vigore nel settembre dello stesso anno.
Sulla carta sembrava che l’integrazione o, quanto meno, la convivenza, fosse possibile. In realtà, già a partire dai primi anni dopo l’indipendenza, il governo centrale ha iniziato a varare politiche di unificazione forzata, centralizzazione della struttura di potere e assimilazione forzata. Politiche che sono culminate nel 1972 con la soppressione del sistema federale e, con essa, la nascita della Repubblica unita del Camerun diventata poi, nel 1984, Repubblica del Camerun. Il processo di annessione è continuato e gli anglofoni si sono sentiti sempre più marginalizzati. Negli anni hanno visto erodersi molti spazi della loro autonomia. E sono riusciti a mantenere una certa indipendenza da Yaoundé solo nei settori educativo e giuridico. Nelle scuole si è continuato a insegnare in lingua inglese e nei tribunali ad essere applicato un sistema di common law simile a quello britannico. Un’ulteriore colpo all’autonomia degli anglofoni è arrivato nell’ottobre 2016. Il governo invia nelle province anglofone alcuni insegnanti di madrelingua francese e decide di limitare la common law. Ne sono nate dure proteste, altrettanto duramente represse dalle forze dell’ordine. «Il presidente Paul Biya, che guida il Paese da 35 anni, non è avvezzo al dialogo – spiega Ludovic Lado, gesuita camerunese e analista politico -, alle manifestazioni di protesta ha risposto inviando rinforzi alla polizia e alle forze armate. Ne è nata una feroce repressione che, in molti casi, è sfociata in aperte violazioni dei diritti umani. I leader della comunità anglofona hanno perso i loro posti di lavoro perché sospettati di sostenere i manifestanti. Alcuni di essi sono stati arrestati e portati a Yaoundé, dove dovranno subire un processo in base alle leggi antiterrorismo».
In risposta al pugno di ferro, è nato un movimento separatista che negli ultimi mesi si è radicalizzato, polarizzando ulteriormente le posizioni di anglofoni e francofoni. Le rimostranze degli anglofoni non si sono più limitate ai sistemi educativo e giudiziario, ma si sono spinte oltre fino alla dichiarazione di autonomia, avvenuta il 1° ottobre, delle regioni anglofone e la creazione della repubblica di Ambazonia. Una repubblica che, al momento, è rimasta sulla carta. Ma le manifestazioni sono state intense e la reazione delle forze dell’ordine ancora più dura. I morti sono state decine. Le autorità di Yaoundé (Camerun) hanno emesso mandati d’arresto internazionali per quindici leader di un partito separatista anglofono, il Consiglio Nazionale del Sud del Camerun. Secondo un sito web locale, Sisiku Ayuk Tabe, il presidente autoproclamato della regione autonoma, è tra quelli ricercati.
In una dichiarazione rilasciata all’inizio di ottobre, Zeid Ra’ad Al Hussein, commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha affermato di essere preoccupato per la reazione con la quale il governo ha gestito le manifestazioni pacifiche degli anglofoni. Ha chiesto un’indagine indipendente per chiarire il numero di morti. «Invitiamo le autorità ad assicurare che la polizia impedisca l’uso della forza da parte dei suoi agenti – ha aggiunto -. Le persone devono poter esercitare il loro diritto a riunirsi in modo pacifico e a esprimersi in modo libero, anche attraverso l’accesso ininterrotto a Internet».
Il governo ha infatti bloccato anche il flusso di informazioni, restringendo o, in alcuni casi, impedendo l’accesso ai social network (Facebook, Twitter, WhatsApp, ecc.). Dopo le Primavere arabe, i social network hanno avuto un ruolo fondamentale nel trasmettere parole d’ordine di ogni rivolta. Yaoundé, come molti governi africani, ha così deciso di bloccare i server per timore che le manifestazioni trovassero una cassa di risonanza. Gli stessi esponenti del governo hanno ammesso che il blocco era stato ordinato per evitare che i social media fossero utilizzati «attivamente per diffondere informazioni false e per incitare membri del pubblico contro le istituzioni statali». Quello che doveva essere un provvedimento temporaneo, è però diventata una misura permanente. Le due province sono quindi costantemente isolate dai social. Le Nazioni Unite hanno anche definito la mossa come un atto che calpesta la libertà di parola e di espressione. «Queste restrizioni – è scritto in un rapporto dell’Onu – devono cessare immediatamente e il governo deve garantire un’indagine approfondita, imparziale e indipendente su tutte le accuse di violazioni dei diritti umani perpetrate durante e dopo gli eventi del 1° ottobre. Il governo deve adottare misure efficaci per perseguire e sanzionare tutti i responsabili di tali violazioni». Condanne delle violenze sono arrivate anche dall’Unione africana, dall’Unione europea e dagli Stati Uniti.
Di fronte alle tensioni nelle regioni anglofone, la provincia episcopale di Bamenda è intervenuta denunciando «una volontà genocida» e «un’epurazione etnica» da parte delle autorità. I vescovi locali hanno puntato il dito contro il governo che, a loro parere, ha «usato in modo irresponsabile le armi da fuoco contro civili disarmati». «I nostri fedeli – hanno affermato i prelati - sono stati perseguiti fin dentro le loro case, alcuni sono stati arrestati, altri mutilati e altri ancora colpiti a morte. Esprimiamo dolore per le vittime e per le sofferenze dei feriti e di chi ha perso le proprietà per i saccheggi e gli incendi, e per coloro che sono in pena per le persone care disperse o rapite».
Parole molto ferme anche nel comunicato emesso dalla Conferenza episcopale del Camerun. «Nessuno ha il diritto di uccidere – è scritto – Noi denunciamo la violenza utilizzata e lo facciamo con tutte le nostre energie». Secondo i vescovi del Camerun, però, la soluzione non è la secessione, ma una maggiore attenzione alle diversità che convivono nel Paese. «In Camerun – osserva mons. Samuel Kleda - vivono 23 milioni di persone e si vorrebbero creare due Stati. Molti camerunesi pensano che questa non sia la soluzione. C’è un problema di ingiustizia che va risolto attraverso il dialogo».
Secondo Ludovic Lado, la soluzione della crisi deve passare attraverso un dialogo internazionale, sotto la mediazione internazionale che lavori per un’effettiva decentralizzazione delle strutture di governo. «C’è bisogno anche di un cambio al vertice – osserva Lado -. La durata del regime di Biya (35 anni) e le sue politiche sono una parte del problema delle province anglofone. La soluzione, o parte di essa, potrebbe arrivare dalle dimissioni al termine del mandato (2018). Libere elezioni potrebbero favorire il rinnovamento della classe politica. Se dovesse rimanere attaccato alla sua carica, c’è il rischio che la situazione si tenda ulteriormente, portando a ulteriori violenze».
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Cameroon in crisis, risk of secession
The crisis in the western provinces of Cameroon comes as no surprise. For years it was known that the English speaking peoples in this area were dissatisfied and felt marginalised by the central government. This malcontent was known and it was feared that sooner or later it would explode. Probably the central government in Yaounde underestimated the risk and, when it decided to act, its harshness unleashed an equally harsh reaction on the part of the local people. The result has been an increase in tension with clashes leaving many dead among both the English speaking citizens and the security forces.
To understand the crisis we must go back in time. The Berlin Conference in 1884 which divided Africa in areas of influence (and had in fact divided the continent between the European powers) and assigned Cameroon to Germany. The country had become a colony of the German Kaiser, like Namibia, Tanzania and Togo. At the end of the Great War, Germany defeated, France and Great Britain, the victorious powers divided its colonies between themselves. Cameroon was split in two. The western region was annexed to Nigeria ending up under British influence. Wheras rest of the country became a French colony. This balance held until 1 January 1960 when French Cameroon gained independence from Paris. In the face of this independence , the English speaking part of Cameroon broke in two. One part remained with Nigeria, the other, with a referendum, chose to reunite with Cameroon. The annexation was based on an agreement which foresaw the creation of a federal state that would allow each of the two components of society to retain its own cultural and linguistic autonomy, but within the country’s unity. And in fact in August 1961, the parliament in Yaoundé approved a federal Constitution which became effective in the September of the same year.
On paper it appeared that integration, or at least co-existence, was feasable. In actual fact, already in the first years after independence the central government began to pass policies of forced unification, centralization of the structures of power and forced assimilation. Policies which culminated in 1972 with the suppression of the federal system, and with it the birth of the United Republic of Cameroon which became in 1984, the Republic of Cameroon. The annexation process continued and the English speaking citizens felt increasingly marginalised. With time many areas of their autonomy were eroded. And they succeeded in maintaining a certain degree of independence from Yaounde only in educational and juridical matters . In schools English continued to be taught and the courts applied a system of law similar to the British method. An ulterior blow to English speaking autonomy came in October 2016. The government sends a few French speaking teachers to the English speaking provinces and decides to curtail common law. Strong protests ensue, repressed by just as strong reaction from the police. «President Paul Biya, who has led the country for 35 years, is unaccustomed to dialogue – we are told by Fr Ludovic Lado, a Cameroonian Jesuit and political analyst -, responded to the protest by sending police and army reinforcements. This led to a ferocious repression which, in many cases, exploded in open violation of human rights. Leading members of the English speaking community were sacked suspected of backing the protesters. Some of them were arrested and taken to Yaounde, to be tried on the basis on anti-terrorism laws».
To respond to the iron fist method a separatist movement was formed and in recent months has become radicalised, polarising further the English speaking and French speaking positions. The grievances of the English speaking citizens are no longer limited to the educational and judicial systems, instead they have gone further to the point of declaring autonomy on 1 October on the part of English speaking regions and the establishment of the Republic of Ambazonia. A republic which, at the moment is still only on paper. However protests have been intense and the reaction of the security forces even stronger. Tens of people have been killed. The Yaounde authorities (Cameroon) have issued international warrants of arrest for the fifteen leaders of an English speaking separatist party, the South Cameroon National Council. According to a local web site, Sisiku Ayuk Tabe, self-proclaimed president of the autonomous region, is among the wanted persons.
In a statement released at the beginning of October , Zeid Ra’ad Al Hussein, United Nations C0missioner for Human Rights, expressed concern about the reaction with which the government handled the peaceful demonstrations of the English speakers. He has asked for an independent inquiry to investigate the number of dead. «We urge the authorities to ensure that the police force prevents the use of force on the part of its officers– he added -. People must be able to exercise their right to assembly peacefully and speak out freely, also through uninterrupted access to the internet ».
The government has in fact blocked the flow of information, restricting or in some cases preventing access to the social networks (Facebook, Twitter, WhatsApp, etc.). Following the Arab Spring, social networks played a fundamental role in transmitting the password of every revolt . Yaounde, like many African governments, decided to block the server fearing that demonstrations might find a sounding board. Members of the government themselves admitted that the block was ordered to prevent social media from being used «actively to transmit false information to incite members of the public against the state institutions ». However, what was intended as a temporary measure became permanent. Both provinces are isolated from the social network. The United Nations defined the move an act which tramples the right of freedom of expression. «These restrictions – a UN reports affirms– must cease immediately and the government must guarantee in-depth, impartial and independent inquiry regarding all the accusations of violation of human rights perpetrated during and after the events of 1 October. The government must adopt efficacious measures to pursue and punish all those responsible for these acts of violation». Condemnation of the violence came also from the African Union, the European Union and the United States of America.
In the face of tension in the English speaking regions the Catholic bishops of the province of Bamenda denounce «genocide » and « ethnic cleansing » on the part of the authorities. The local bishops point the finger at the government for in their opinion, «irresponsible use of firearms against disarmed civilians ». «Our people – the Bishops say – have been chased into their homes, some have been arrested, other mutilated and others still beaten to death. We voice our grief for the dead, for the sufferings of the wounded, for those who have lost their homes because of looting and torching and for those concerned about their loved ones who are dispersed or kidnapped».
Strong words are to be found also in a statement issued by the Catholic Bishops’ Conference of Cameroon. «No one has the right to kill – We denounce the violence used and we do so with all our energies ». However according to the Bishops of Cameroon, the solution is not secession, but instead greater attention for the diversity which exists in the country. « Cameroon – says archbishop Samuel Kleda of Duala - has a population of 23 million and some people want to create two different states. But many Cameroonians think this is not the solution. There is a situation of injustices which must be addressed by means of dialogue ».
According to Ludovic Lado, the solution to the crisis must be found in international dialogue with international mediation working for a decentralisation of the structures of government. «There is also need of a change of leadership –Lado observes -. The lengthy regime of Biya (35 anni) and its policies are part of the problem in the English speaking provinces. The solution, or part of it, could come from resignation at the end of the mandate (2018). Free elections could favour a renewal of the political class. If he clings to his position, there is a risk of greater tension and more violence ».
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FRANÇAIS ---
Risque de sécession dans un Cameroun en crise
C’est une crise annoncée que celle qui a éclatée dans les provinces occidentales du Cameroun. Depuis des années, l’insatisfaction des populations anglophones était bien connue, elles qui se sont toujours senties marginalisées par le gouvernement central. Leur mécontentement était connu et l’on craignait que, tôt ou tard, il aurait fini par exploser. Probablement, le gouvernement de Yaoundé a sous-estimé ce risque et, lorsqu’il a décidé de l’affronter, il l’a fait de manière dure, déchaînant une réaction tout aussi dure de la part de la population locale. Le résultat est la croissance de la tension au travers d’affrontements qui ont provoqué de nombreux morts tant parmi les anglophones que parmi les forces de l’ordre.
Pour comprendre cette crise, il faut faire un retour en arrière. La Conférence de Berlin de 1884 qui avait réparti l’Afrique en zones d’influence avait assigné le Cameroun à l’Allemagne. Le pays était ainsi devenu une colonie de l’Empire allemand tout comme la Namibie, la Tanzanie et le Togo. A la fin de la Grande Guerre, avec la défaite de l’Allemagne, la France et la Grande-Bretagne se sont divisées ses colonies. Le Cameroun a été fractionné en deux. La région occidentale a été annexée au Nigeria et donc à l’Empire britannique, le reste du pays devenant une colonie française. Cet équilibre a été conservé jusqu’au 1er janvier 1960 lorsque le Cameroun français est devenu indépendant. Face à cette indépendance, la partie anglophone du Cameroun s’est déchirée. Une partie est demeurée avec le Nigeria alors que l’autre a décidée par la voie du référendum, de rejoindre le Cameroun. L’union se basait sur une entente prévoyant la création d’un Etat fédéral permettant à chacune des deux composantes de la société de conserver une autonomie culturelle et linguistique tout en disposant d’une unité étatique. En effet, en août 1961, le Parlement de Yaoundé approuvait une Constitution fédérale qui est entrée en vigueur en septembre de cette même année.
Sur le papier, il semblait que l’intégration, ou à tout le moins, la coexistence ait été possible. En réalité, dès les premières années qui suivirent l’indépendance, le gouvernement central a commencé à mener des politiques d’unification forcée, de centralisation des structures de pouvoir et d’assimilation forcée. Ces politiques ont culminées en 1972 au travers de la suppression du système fédéral et, avec elle, de la naissance de la République unie du Cameroun, devenue, en 1984, République du Cameroun. Le processus d’annexion s’est poursuivi et les anglophones se sont sentis toujours plus marginalisés. Au fil des ans, ils ont vu se réduire de nombreux espaces d’autonomie et ils sont parvenus à conserver une certaine indépendance vis-à-vis de Yaoundé seulement dans les secteurs éducatif et juridique. Dans les écoles, l’enseignement a continué à être imparti en langue anglaise et le système de common law, similaire au système britannique, a continué à s’appliquer dans les tribunaux. Un nouveau coup à l’autonomie des anglophones est arrivé en octobre 2016. Le gouvernement a alors envoyé dans les provinces anglophones des enseignants de langue maternelle française et décidé de limiter le recours à la common law. De dures contestations ont alors eu lieu, tout aussi durement réprimées par les forces de l’ordre. « Le Président Paul Biya, qui gouverne le pays depuis 35 ans, n’est pas habitué à dialoguer – explique le Père Ludovic Lado, jésuite camerounais et analyste politique – et a répondu aux manifestations en envoyant des renforts à la police et aux forces armées. Ce qui a eu pour conséquence une répression féroce qui, dans de nombreux cas, a débouché sur des violations des droits fondamentaux. Les responsables de la communauté anglophone ont perdu leurs postes de travail parce que soupçonnés de soutenir les manifestants. Certains d’entre eux ont été arrêtés par la police et amené à Yaoundé où ils devront subir un procès sur la base des lois antiterroristes ».
En réponse à cette poigne de fer, est né un mouvement séparatiste qui, au cours de ces derniers mois, s’est radicalisé, polarisant encore davantage les positions des anglophones et des francophones. Les réclamations des anglophones ne se sont alors plus limités aux systèmes éducatif et judiciaire mais se sont étendues pour aller jusqu’à la déclaration le 1er octobre de l’autonomie des régions anglophones et la création de la République d’Ambazonie, une république qui, pour le moment, est restée sur le papier. Cependant les manifestations ont été de grande ampleur et la réaction des forces de l’ordre plus dure encore. Les morts se sont comptés par dizaines. Les autorités de Yaoundé ont lancé des mandats d’arrêts internationaux à l’encontre de quinze responsables d’un parti séparatiste anglophone, le Conseil national du Sud du Cameroun. Selon un site Internet local, Sisiku Ayuk Tabe, le Président autoproclamé de la région autonome, est l’une des personnes recherchées.
Dans une déclaration du début du mois d’octobre, le Commissaire des Nations unies chargé des droits fondamentaux, Zeid Ra’ad Al Hussein, a affirmé être préoccupé par la manière dont le gouvernement a géré les manifestations pacifiques des anglophones. Il a demandé à ce que soit menée une enquête indépendante afin d’établir le nombre des morts. « Nous invitons les autorités à s’assurer que la police interdise l’usage de la force à ses agents – a-t-il ajouté. Les personnes doivent pouvoir exercer librement leur droit de se réunir de manière pacifique et de s’exprimer de manière libre, y compris au travers de l’accès ininterrompu à Internet ».
Le gouvernement camerounais a en effet bloqué le flux des informations, restreignant ou, dans certains cas, empêchant l’accès aux réseaux sociaux - Facebook, Twitter, WhatsApp, etc.. Après ce qu’il est convenu d’appeler les printemps arabes, les réseaux sociaux ont eu un rôle fondamental en matière de transmission des mots d’ordre de toutes les révoltes. Yaoundé, comme de nombreux gouvernements africains, a ainsi décidé de bloquer les serveurs par crainte que les manifestations ne trouvent sur la toile une caisse de résonance. Les membres du gouvernement eux-mêmes ont admis que le blocage en question avait été ordonné pour éviter que les réseaux sociaux ne soient utilisés « de manière active pour diffuser de fausses informations et pour inciter des membres du public contre les institutions de l’Etat ». Ce qui devait constituer une mesure temporaire est, cependant, devenu permanent. Les deux provinces sont donc constamment isolées des réseaux sociaux. Les Nations unies ont également qualifié la mesure d’acte foulant aux pieds la liberté de parole et d’expression. « Ces restrictions – est-il écrit dans un rapport de l’ONU – doivent immédiatement cesser et le gouvernement doit garantir une enquête approfondie, impartiale et indépendante portant sur l’ensemble des accusations de violations des droits fondamentaux perpétrées au cours des événements du 1er octobre et par la suite. Le gouvernement doit adopter des mesures efficaces permettant de poursuivre et de sanctionner l’ensemble des responsables de ces violations. Des condamnations de ces violences sont également arrivées de la part de l’Union africaine, de l’Union européenne et des Etats-Unis.
Face aux tensions dans les régions anglophones, la Province ecclésiastique de Bamenda est intervenue en dénonçant « une volonté génocidaire » et « une épuration ethnique » de la part des autorités. Les Evêques locaux ont montré du doigt le gouvernement qui, selon eux, a « utilisé de manière irresponsable les armes à feu contre des civils désarmés ». « Nos fidèles – ont affirmé les Evêques – ont été persécutés jusqu’à l’intérieur de leurs maisons. Certains ont été arrêtés, d’autres mutilés et d’autres encore frappés à mort. Nous exprimons notre douleur pour les victimes et pour les souffrances des blessés et de ceux qui ont perdu des propriétés, à cause des saccages et des incendies, ainsi que pour tous ceux qui sont dans la peine du fait de la disparition ou de l’enlèvement d’êtres chers ».
Des propos très fermes se trouvent également dans le communiqué émis par la Conférence épiscopale du Cameroun. « Personne n’a le droit de tuer – est-il écrit. Nous dénonçons la violence utilisée et nous le faisons avec toute notre énergie ». Selon les Evêques du Cameroun, cependant, la solution ne repose pas dans la sécession mais dans une plus grande attention accordée aux diversités qui coexistent dans le pays. « Au Cameroun – remarque S.Exc. Mgr Samuel Kleda, Archevêque de Douala – vivent 23 millions de personnes et certains voudraient créer deux Etats. De nombreux camerounais pensent que cela ne constitue pas la solution. Il existe un problème d’injustice qui doit être résolu au travers du dialogue ».
Selon le Père Ludovic Lado, la solution de la crise doit passer au travers d’un dialogue internationale, conduit sous une médiation internationale, en mesure de travailler pour une effective décentralisation des structures de gouvernement. « Il existe aussi un besoin de changement au sommet – observe le Père Lado. La durée du régime de Paul Biya (35 ans NDR) et ses politiques constituent une partie du problème des provinces anglophones. La solution, ou une partie de celle-ci, pourrait arriver de son départ au terme de son mandat actuel (2018). Des élections libres pourraient favoriser le renouvellement de la classe politique. S’il [le Président] devait demeurer à son poste, la situation risque de se tendre encore davantage, portant à de nouvelles violences ».
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Camerún en crisis, el riesgo es la secesión
Se trata de una crisis anunciada que estalló en las provincias occidentales de Camerún. Durante años, fue más que notoria la insatisfacción de las poblaciones anglófonas, que siempre se han sentido marginadas por el gobierno central. Su descontento era conocido y se temía que, tarde o temprano, explotara de alguna forma. Probablemente el gobierno central de Yaoundé subestimó el riesgo y, cuando decidió abordarlo, lo hizo con dureza, provocando una reacción igualmente dura por parte de la población local. El resultado es el aumento de la tensión con enfrentamientos que han causado numerosas muertes tanto en los anglófonos como en las fuerzas del orden público.
Para entender esta crisis, es necesario remontarse a algunos hechos históricos. La Conferencia de Berlín de 1884, que dividió África en varias áreas de influencia (en realidad, supuso el reparto del continente entre las potencias europeas), asignó Camerún a Alemania. El país se había convertido así en una colonia del kaiser alemán como lo eran Namibia, Tanzania y Togo. Al final de la Gran Guerra, con la derrota de Alemania, Francia y Gran Bretaña, -las potencias ganadoras-, se repartieron las colonias alemanas. Camerún se dividió en dos partes. La región occidental se anexó a Nigeria y terminó bajo la influencia británica. El resto del país se convirtió en una colonia francesa. Este equilibrio permaneció intacto hasta el 1 de enero de 1960 cuando el Camerún francés se independizó de París. Con esta independencia, se produjo también una división en la parte de habla inglesa de Camerún. Una parte permaneció con Nigeria y la otra decidió, -a través de un referéndum-, volver con Camerún. La anexión se basó en un acuerdo que preveía la creación de un estado federal que permitiera a cada uno de los dos componentes de la sociedad mantener su propia autonomía cultural y lingüística, en un mismo estado. Y, de hecho, en agosto de 1961, el Parlamento de Yaoundé aprobó una constitución federal que entró en vigor en septiembre del mismo año.
Sobre el papel parecía que la integración o, al menos, la convivencia era posible. De hecho, ya en los primeros años después de la independencia, el gobierno central comenzó a implementar políticas de unificación forzada, centralización de la estructura de poder y asimilación forzosa. Políticas que en 1972 dieron lugar a la supresión del sistema federal y, con ello, el nacimiento de la República Unida de Camerún que más tarde, en 1984, se convirtió en la República de Camerún. El proceso de anexión continuó y los angloparlantes se sintieron cada vez más marginados. Con los años han visto mermada mucha de su autonomía. Solo lograron mantener cierta independencia de Yaoundé en el ámbito educativo y legal. Las escuelas continuaron enseñando en inglés y en los tribunales se empleaba un sistema de common law similar al británico. Otro golpe a la autonomía de los angloparlantes llegó en octubre de 2016. Se produjo cuando el gobierno envió a maestros de lengua francesa a las provincias de habla inglesa y decidió limitar la common law.
Hubo entonces fuertes protestas duramente reprimidas por las fuerzas del órden. “El presidente Paul Biya, que lleva 35 años al frente del país, no está acostumbrado al diálogo,- asegura Ludovic Lado, jesuita camerunés y analista político-, y a las protestas respondió enviando a más efectivos policiales y al ejército. El resultado fue una represión feroz que, en muchos casos, dio lugar a claras violaciones de los derechos humanos. Muchos de los líderes de la comunidad de habla inglesa perdieron sus empleos tan solo porque se sospecha que pudieron apoyar a los manifestantes. Algunos de ellos han sido arrestados y llevados a Yaoundé, donde tendrán que someterse a un juicio bajo leyes antiterroristas”.
En respuesta a la mano dura, nació un movimiento separatista que en los últimos meses se ha radicalizado, polarizando aún más las posiciones entre angloparlantes y francófonos. Los agravios de los angloparlantes ya no se limitaban a injerencias en los sistemas educativo y judicial, sino que iban más allá de la declaración de autonomía, -que tuvo lugar el 1 de octubre-, de las regiones de habla inglesa y la creación de la República de Ambazonia. Una república que, por el momento, se ha quedado en el papel mojado. Las manifestaciones fueron muy fuertes y la reacción de las fuerzas de seguridad a las mismas lo fue aún más. Las autoridades de Yaoundé han emitido órdenes de arresto internacionales para quince líderes de un partido separatista de habla inglesa, el Consejo Nacional del Sur de Camerún. Según una web local, Sisiku Ayuk Tabe, el autoproclamado presidente de la región autónoma estaría entre los buscados.
En una declaración emitida a principios de octubre, Zeid Ra'ad Al Hussein, comisionado de la ONU para los Derechos Humanos, expresaba su preocupación por la reacción que tuvo el gobierno a las manifestaciones pacíficas de la población de habla inglesa. Solicitaba además una investigación independiente para esclarecer la cifra de muertos. “Instamos a las autoridades a garantizar que las autoridades policiales impidan el uso de la fuerza por parte de sus agentes”, -indicaba-. “Las personas deben poder ejercer su derecho a reunirse de modo pacífico y a expresarse libremente, incluso a través del acceso ininterrumpido a Internet”.
Y es que, de hecho, el gobierno también ha bloqueado el flujo de información, restringiendo o, en algunos casos, impidiendo el acceso a las redes sociales (Facebook, Twitter, WhatsApp, etc.). Después de las primaveras árabes, las redes sociales han jugado un papel fundamental en la transmisión de consignas en cualquier revuelta. Yaoundé, como muchos gobiernos africanos, decidió bloquear los servidores por temor a que las manifestaciones encontraran en ellas una caja de resonancia. Los propios funcionarios del gobierno admitieron que se había ordenado el bloqueo para impedir que las redes sociales fueran “utilizadas activamente para difundir información falsa e incitar al pueblo contra las instituciones del Estado”. Lo que se suponía que era una medida temporal, se ha convertido en una medida permanente. Significa que las dos provincias están completamente aisladas en las redes sociales. La ONU también ha definido la medida como un acto que pisotea la libertad de expresión. “Estas restricciones, -señala un informe de la ONU-, deben cesar de inmediato y el gobierno debe de garantizar una investigación exhaustiva, imparcial e independiente de todas las denuncias de violaciones contra los derechos humanos perpetradas durante y después de los acontecimientos del 1 de octubre. El gobierno debe tomar medidas efectivas para enjuiciar y castigar a todos los responsables de tales violaciones”. Las condenas a esta violencia se multiplican también desde la Unión Africana, la Unión Europea y los Estados Unidos.
Ante las tensiones en las regiones de habla inglesa, la provincia episcopal de Bamenda ha intervenido también denunciando “una voluntad genocida” y “una limpieza étnica” por parte de las autoridades. Los obispos locales han señalado directamente al gobierno que, en su opinión, “ha empuñado de forma irresponsable armas de fuego contra civiles desarmados”. “Nuestros fieles, -indican los prelados-, han sido perseguidos en sus casas, han sido arrestados, mutilados y golpeados hasta la muerte. Expresamos nuestro dolor por las víctimas y por el sufrimiento de los heridos y de los que han perdido sus bienes por los saqueos y los incendios. Además de por los que sufren porque sus seres queridos que están desaparecidos o secuestrados”.
La Conferencia Episcopal de Camerún también se ha expresado con dureza. “Nadie tiene derecho a matar, -escriben-. Denunciamos la violencia utilizada y lo hacemos con toda nuestra energía”. Según los obispos de Camerún, la solución no es la secesión, sino prestar más atención a la diversidad que existe en el país. “En Camerún, -apunta monseñor Samuel Kleda- , viven 23 millones de personas y se piensa en los dos estados. Pero muchos cameruneses no creen que esta sea la solución. Hay un problema de injusticia que debe resolverse a través del diálogo”.
Según Ludovic Lado, la solución a la crisis debe pasar por un diálogo bajo mediación internacional, que funcione para impulsar una descentralización efectiva de las estructuras de gobierno. “También necesitamos un cambio en las altas esferas, - señala Lado -. La duración del régimen de Biya (35 años) y sus políticas son parte del problema de las provincias de habla inglesa. La solución, -o parte de ella-, podría ser la renuncia al final del mandato (2018). Las elecciones libres podrían alentar la renovación de la clase política. Si permanece unido a su cargo, existe el riesgo de que la situación se prolongue aún más y, por tanto, genere más violencia”.