Corruzione, povertà, disuguaglianze sociali alimentano la propaganda dei gruppi jihadisti, che puntano a indottrinare i giovani bangladesi
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“Qui in Bangladesh, i fattori che guidano il reclutamento e la mobilitazione jihadista sono molteplici. I processi di radicalizzazione islamista hanno radici storiche di cui bisogna tener conto e che eccedono il nesso povertà-estremismo”.
Shahab Enam Khan, docente di relazioni internazionali all'università Jahangimagar di Dacca e membro dell'Enterprise Institute, ha studiato a lungo i movimenti radicali islamisti. In una recente intervista con Fides nel suo ufficio nel quartiere Gulshan della capitale bangladese, ricorda che per comprendere la crescita del salafismo-jihadista e le sfide future occorre rivolgere lo sguardo indietro: al periodo immediatamente successivo all’indipendenza del Paese, ottenuta nel 1971 dopo una sanguinosa guerra per liberarsi dal controllo del Pakistan. Le condizioni per l’affermazione del radicalismo di matrice islamista, nota Shahan Enam Khan, dipendono dalla polarizzazione politica creata negli anni successivi all’indipendenza. Quando partiti e movimenti politici si sono combattuti in nome di principi e ideologie diverse, mentre è diventata sempre più evidente l’incapacità istituzionale di garantire una governance efficiente. Da qui, un vuoto politico, colmato da nuovi movimenti islamisti radicali, le cui strategie di reclutamento si sono concentrate proprio sulla critica all’establishment, sulla sua incapacità di garantire servizi e diritti alla maggioranza della popolazione. La corruzione della macchina amministrativa e statuale, insieme a quella che investe il settore della giustizia, ha fornito altri elementi per la propaganda.
Negli anni più recenti, si è aggiunto un altro fattore: la contraddizione tra la crescita economica del Paese, di cui beneficia solo un'élite urbana e colta, e la mancata inclusione della maggioranza della popolazione, soprattutto quella rurale. Secondo le recenti stime dell’Asian Development Bank, infatti, il Pil del Bangladesh nel 2017 è cresciuto di più del 7%, e le stime per il 2018 si attestano sullo stesso livello. Ma la crescita non è inclusiva, e la povertà rimane diffusa, si legge nei rapporti del Bangladesh Bureau of Statistics e della Banca mondiale: il 30% circa della popolazione vive sotto la soglia di povertà nazionale, il 17% (circa 25 milioni) soffre povertà estrema; il tasso di disoccupazione è intorno al 4%; ogni anno su circa 2 milioni e 700.000 nuovi giovani che ambiscono a entrare nel mondo del lavoro, soltanto un quarto ci riesce; il salario medio mensile è fermo a circa 5.500 taka (60 euro), un terzo di quello che servirebbe per vivere dignitosamente.
Intorno a questi fattori, i gruppi afferenti alla variegata galassia radicale locale hanno organizzato una battaglia retorica. Passa per canali di distribuzione diversi, dai pamphlet stampati clandestinamente e distribuiti nelle aree rurali e nelle periferie delle città al passaparola, per finire con i social media, sempre più accessibili ed economici. Proprio su questi ultimi canali di comunicazione si è innestata, in particolare a partire dall’istituzione del cosiddetto Stato islamico nell’estate del 2014, la retorica jihadista globale. Quella del gruppo guidato dal sedicente Califfo Abu Bakr al-Baghdadi e quella, più datata, di al-Qaeda. Sia l'attuale numero uno di al-Qaeda, l'egiziano Ayman al-Zawahiri sia il suo rivale al-Baghdadi guardano con particolare interesse al subcontinente indiano, un bacino di reclutamento potenziale enorme. Con i suoi 172 milioni di musulmani e una conflittualità intermittente ma costante tra le varie comunità religiose, l'India è il boccone più ambito. Il Bangladesh, Paese con la quarta popolazione musulmana al mondo e con un governo laico e nazionalista guidato da Sheikh Hasina dell’Awami League e malvisto dagli islamisti, segue subito dopo. Non a caso, nel settembre 2014 al-Zawahiri ha annunciato la creazione di al-Qaeda nel sub-continente indiano (Aqis). Al contrario del leader dello Stato islamico, che si è affacciato nell'area del sud-est asiatico solo di recente, qui le radici di al-Qaeda sono solide, si basano su alleanze, contatti, conoscenze consolidate nel corso di decenni, a partire già dagli anni Novanta, ai tempi della resistenza dei mujahedin afghani contro l'occupazione sovietica. A quel jihad parteciparono circa 3.400 bangladesi. Parte di loro ha formato nel 1992 il gruppo Harkat-ul-Jihad-al-Islami Bangladesh (branca locale dell'omonimo gruppo pachistano), che nel 2005 ha inaugurato un'ambiziosa agenda di presa del potere in dieci anni, repressa dagli apparti di sicurezza. Dalla fine degli anni Novanta e all'inizio del decennio successivo, spiega a Fides il professor Shahab Enam Khan, hanno dominato la scena altri due gruppi: Jamaitul Mujahedin Bangladesh e Jagrata Muslim Janata Bangladesh, responsabili nell'estate del 2005 di circa 500 esplosioni in tutto il Paese. Gruppi che si affidano a una rete di militanti attiva nelle aree rurali e nelle periferie metropolitane, composta perlopiù da giovani senza istruzione, poveri, emarginati, esclusi dal mercato del lavoro, privi di occasioni di riscatto sociale, pieni di risentimento.
Ma la povertà diffusa e la scarsa istruzione non bastano a spiegare la crescita del fondamentalismo islamista. Anche qui in Bangladesh, come altrove, nella mobilitazione jihadista contano altri fattori, come ha spiegato il sociologo Diego Gambetta nel libro Ingegneri della jihad. Il sorprendente legame tra istruzione ed estremismo. E come dimostrano le biografie di alcuni jihadisti bangladesi. Il leader di Jagrata Muslim Janata Bangladesh, Bangla Bahi (conosciuto anche come Siddiqul Islam e Aziz Ur-Rahman, giustiziato nel 2007), era laureato in letteratura bengalese. Quattro dei cinque jihadisti responsabili dell'attacco del luglio 2016 alla Holey Artisan Bakery di Dacca rivendicato dallo Stato islamico provenivano da famiglie agiate, privilegiate, vantavano solidi studi alle spalle, godevano di garanzie sul futuro.
Dietro l'affermazione del radicalismo islamista c'è un'altra battaglia, di più ampia portata. E' di ordine sociale e ideologico. Riguarda la definizione di quale sia l’identità bangladese, quale ruolo debba avere l’Islam – e quale forma di Islam – dentro una transizione sociale e culturale che ha condotto nel ventunesimo secolo un Paese diviso tra una maggioranza ancorata alle coordinate culturali e sociali del mondo rurale e una minoranza che detiene il potere ed è influenzata da modelli alternativi, esogeni. I gruppi jihadisti sono anche una risposta a questa transizione. Sfruttano le nuove fratture sociali e identitarie. Fratture che rientrano in quella più profonda che contrassegna il Bangladesh dalla sua fondazione: quella tra quanti pensano a un Paese secolare e liberale, come recita la prima Costituzione del 1973, e quanti invece aspirano a una nazione fondata sull'Islam come religione di Stato, come recita l'emendamento costituzionale del 1988. Più che alla povertà, è in questi smottamenti culturali – male gestiti e spesso alimentati dalla politica istituzionale – che vanno rintracciate le matrici del radicalismo islamista.
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Bangladesh: at the roots of Islamist extremism
“Here in Bangladesh the factors which drive Jihadist recruitment and mobilisation are multiple. The processes of Islamist radicalisation have historical roots which must be taken into consideration and which exceed the connection poverty-extremism”.
Shahab Enam Khan, docent in international relations at Jahangimagar University in Dacca and a member of the Enterprise Institute, has completed an extensive study of radical Islamist movements. In a recent interview with Fides in his office in the Gulshan district of the Bangladeshi capital, the scholar recalls that to understand the spread of jihadist-Salafism and the future challenges it is necessary to look at the past: to the period immediately following the country’s independence, obtained in 1971 after a bloody war to free itself from control by Pakistan. The conditions for the affirmation of radicalisation of Islamist matrix, says Shahan Enam Khan, depend on the political polarisation created in the years following independence. When political movements and parties fought each other in the name of different principles and ideologies, while institutional incapacity to guarantee efficient governance became increasingly evident. This led to a political vacuum plugged with new radical Islamist movements, whose recruitment strategies focussed precisely on criticism of the establishment, and the incapacity to guarantee services and rights for the majority of the population. Corruption of the administrative and statuary machine together with that which invests the judiciary sector, supplied other elements for propaganda.
In more recent years, another factor has emerged: contradiction between the country’s economic growth, which benefits only an educated urban elite, and the non-inclusion of the majority of the population, especially in rural areas. According to recent estimates by the Asian Development Bank, Bangladesh’s gross domestic product in 2017 grew by more than 7%, and forecasts for 2018 remain at the same level. However growth is not inclusive and poverty remains widespread, according to reports issued by the Bangladesh Bureau of Statistics and the World Bank: about 30% of the population lives below the national poverty line, 17% (circa 25 million) suffer from extreme poverty; the unemployment rate is about 4%; every year of between 2 million and 700,000 more young people wanting to enter the world of work, only one fourth succeeds; the average monthly salary goes no higher than 5.500 Taka (60 euro), one third of the sum necessary for living in a decent manner.
Around these factors, groups pertaining to the local variegated radical galaxy have organised a rhetorical battle. This battle passes by various channels of distribution, ranging from pamphlets printed underground and distributed in rural areas and city peripheries, to word of mouth communication, ending up on social media, ever more accessible and inexpensive. Precisely along these channels of communication beginning with the institution of the so-called Islamic State in the Summer of 2014, there has been a grafting of global jihadist rhetoric, of the group led by the self-proclaimed Calif Abu Bakr al-Baghdadi and the earlier one of al-Qaeda. Both the present number one of al-Qaeda, Egyptian Ayman al-Zawahiri and his rival, al-Baghdadi, look with particular interest towards the Indian sub-continent, potentially an enormous recruitment area. With its 172 million Muslims and intermittent but constant unrest between different religious communities, India is the morsel most sought after. Bangladesh, a nation with the fourth largest Muslim population in the world and a secular nationalist government led by Sheikh Hasina of the Awami League and unpopular with the Islamists, follows immediately. Not by chance, in September 2014 al-Zawahiri announced the creation of al-Qaeda on the Indian sub-continent (AQIS Asian quantum Information Science Conference). Unlike the leader of the so called Islamic State, which only recently appeared in the area of South East Asia, here the al-Qaeda roots are solid, based on alliances, contacts, acquaintances consolidated during decades, since the 1990s, and Afghan Mujahedin resistance to Soviet occupation. That jihad involved about 3,400 Bangladeshi. Some of them formed in 1992 the group Harkat-ul-Jihad-al-Islami Bangladesh (local branch of the Pakistani group of the same name), which in 2005 inaugurated an ambitious agenda of power taking in ten years, supressed by members of the security. From the end of the 1990’s to the beginning of the following decade, professor Shahab Enam Khan told Fides, the scene was dominated by two more groups : Jamaitul Mujahedin Bangladesh and Jagrata Muslim Janata Bangladesh, responsible in the Summer of 2005 for 500 explosions in different parts of the country. Groups with a network of militants active in rural areas and metropolitan peripheries, composed mainly of young men without schooling, poor, marginalised, excluded from the job market, lacking opportunities for social improvement, filled with resentment.
However, widespread poverty and lack of schooling alone cannot explain the spread of Islamist fundamentalism. Here in Bangladesh, as elsewhere, in jihadist mobilisation other factors come into play, as sociologist Diego Gambetta explains in his book Engineers of Jihad: the Curious Connection Between Violent Extremism and Education. And as demonstrated in biographies of certain Bangladeshi jihadists. The leader Jagrata Muslim Janata Bangladesh, Bangla Bahi (also known as Siddiqul Islam and Aziz Ur-Rahman, executed in 2007), who had a degree in Bengali literature. Four of the five jihadists responsible for the attack in July 2016 at Holey Artisan Bakery in Dacca for which the so-called Islamic State claimed responsibility, came from well-off, privileged families, had solid studies behind them, and guarantees for the future.
Behind the affirmation of Islamist radicalisation there lies another battle of even greater importance, social and ideological. It concerns the definition of Bangladeshi identity, the role of Islam– and what form of Islam – within a social and cultural transition which in the 21st led century a country split between a majority anchored to the cultural and social coordinates of the rural world and a minority in power and is influenced by alternative exogenous models. Jihadist groups are also response to this transfer. They exploit the new social and identity fractures. Fractures which are part of the deeper rift that has countermarked Bangladesh since its establishment: the rift between those who have in mind a nation which is secular and liberal , as stated in the country’s first Constitution 1973, and those instead who aspire to a nation founded on Islam as the state religion, as stated in the 1988 constitutional amendment. More than in poverty, it is in this cultural land-sliding – badly managed and often stoked by institutional politics– that the matrices of Islamist radicalism must be tracked down.
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Bangladesh: radicalisme de matrice islamiste
Corruption, pauvreté, inégalités sociales alimentent la propagande des groupes djihadistes qui visent à endoctriner les jeunes bengalais.
« Ici, au Bangladesh, les facteurs qui président au recrutement et à la mobilisation djihadistes sont multiples : les processus de radicalisation islamistes ont des racines historiques dont il faut tenir compte et qui vont au-delà du lien entre pauvreté et extrémisme ».
Shahab Enam Khan, enseignant de relations internationales à l’Université Jahangimagar de Dacca et membre de l’Institut Enterprise, a étudié longuement les mouvements radicaux islamistes. Dans un récent entretien avec l’Agence Fides, dans son bureau du quartier Gulshan de la capitale bengalaise, il rappelle que, pour comprendre la croissance du salafisme djihadiste et les défis futurs, il faut regarder en arrière et étudier la période immédiatement successive à l’indépendance du pays, obtenue en 1971 après une guerre sanglante visant à se libérer du contrôle du Pakistan. Les conditions de l’affirmation du radicalisme de matrice islamiste, remarque Shahan Enam Khan, dépendent de la polarisation politique créée au cours des années qui ont suivi l’indépendance, lorsque partis et mouvements politiques se sont combattus au nom de principes et d’idéologies diverses alors que devenait toujours plus évidente l’incapacité institutionnelle à garantir un gouvernement efficace. De là est né un vide politique, comblé par les nouveaux mouvements islamistes radicaux dont les stratégies de recrutement se sont concentrées justement sur la critique des personnes en place, sur leur incapacité à garantir des services et des droits à la majorité de la population. La corruption de l’appareil administratif et étatique, ainsi que celle présente dans le secteur de la justice, a fourni d’autres éléments à la propagande.
Plus récemment, est venu s’ajouter un autre facteur, à savoir la contradiction existant entre la croissance économique du pays, dont ne bénéficie qu’une élite urbaine et cultivée, et la non inclusion de la majorité de la population, en particulier celle des zones rurales. Selon des estimations récentes de la Banque de développement asiatique en effet, le PIB du Bangladesh a augmenté de plus de 7% en 2017 et les estimations relatives à l’an prochain font état du même niveau de croissance. Cependant cette dernière n’est pas inclusive et la pauvreté demeure diffuse, peut-on lire dans les rapports du Bureau des Statistiques du Bangladesh et de la Banque mondiale. En effet, environ 30% de la population vivent en dessous du seuil de pauvreté national, 17% - soit quelques 25 millions de personnes – souffrent d’une pauvreté extrême. Le taux de chômage s’élève à quelques 4% de la population active et chaque année, des quelques 2,7 millions de jeunes désireux d’entrer sur le marché du travail, seul un quart parvient à s’y intégrer. Le salaire moyen mensuel est bloqué à 5.500 takas (soit 60 €uros), soit un tiers de ce qui servirait pour vivre de manière digne.
Autours de ces facteurs, les groupes appartenant à la galaxie variée du radicalisme local ont organisé une bataille rhétorique. Elle passe par des canaux de distribution divers, par des pamphlets imprimés clandestinement et distribués dans les zones rurales et les périphéries des villes et par le bouche-à-oreille pour finir par l’usage des réseaux sociaux, toujours plus accessibles et économiques. C’est justement sur ces canaux de communication que s’est basée, notamment à partir de l’institution du prétendu « Etat islamique » au cours de l’été 2014, la rhétorique djihadiste mondiale, celle du groupe mené par le soi-disant calife Abu Bakr al-Baghdadi comme celle, plus datée, d’al-Qaeda. Tant l’actuel numéro un d’al-Qaeda, l’égyptien Ayman al-Zawahiri, que son rival, al-Baghdadi, montrent un intérêt particulier pour le subcontinent indien, qui représente un bassin de recrutement potentiel énorme. Avec ses 172 millions de musulmans et une conflictualité intermittente mais constante entre les différentes communautés religieuses, l’Inde est la proie la plus recherchée. Le Bangladesh, qui compte la quatrième population musulmane du monde et un gouvernement laïc et nationaliste conduit par le Sheikh Hasina de la Ligue Awani, mal vu par les islamistes, suit de près. Ce n’est pas un hasard si, en septembre 2014, Ayman al-Zawahiri a annoncé la création d’al-Qaeda sur le subcontinent indien (AQIS). A la différence du responsable du prétendu « Etat islamique », qui ne s’est intéressé que récemment au sud-est asiatique, les racines d’al-Qaeda sont ici solides et se basent sur des alliances, des contacts, des connaissances consolidées au cours des décennies, à partir des années 1990, au temps de la résistance des mudjahidins afghans contre l’occupation soviétique. A ce djihad, participèrent quelques 3.400 bengalais. Une partie d’entre eux a formé en 1992 le groupe Harkat-ul-Jihad-al-Islami Bangladesh – branche locale du groupe pakistanais homonyme – qui a inauguré en 2005 un agenda ambition de prise du pouvoir en dix ans, réprimé par les services de sécurité. De la fin des années 1990 au début de la décennie suivante, explique à Fides le Pr. Shahab Enam Khan, deux autres groupes ont dominé la scène : Jamaitul Mujahedin Bangladesh et Jagrata Muslim Janata Bangladesh, responsables à l’été 2005 de quelques 500 explosions dans tout le pays. Les groupes en question se basent sur un réseau de militants actif dans les zones rurales et dans les périphéries des grandes villes, composé en majorité de jeunes privés d’instruction, pauvres, marginalisés, exclus du marché du travail, privés d’occasion de rachat social et plein de ressentiment.
Cependant la pauvreté diffuse et le manque d’instruction ne suffisent pas à expliquer la montée du fondamentalisme islamiste. Ici aussi, au Bangladesh comme ailleurs, d’autres facteurs comptent dans la mobilisation djihadiste comme l’explique le sociologue Diego Gambetta dans le volume « Ingénieurs du djihad – le lien surprenant entre instruction et extrémisme » et comme le démontrent les biographies de certains djihadistes bengalais. Le responsable de Jagrata Muslim Janata Bangladesh, Bangla Bahi – connu aussi sous le nom de Siddiqul Islam e Aziz Ur-Rahman – qui a été exécuté en 2007, était titulaire d’une Maîtrise en littérature bengalaise. Par ailleurs, quatre des cinq djihadistes responsables de l’attaque de juillet 2016 contre la Boulangerie artisanale Holey de Dacca, revendiquée par le prétendu « Etat islamique », provenaient de familles aisées, privilégiées et avaient fait de solides études, garanties pour l’avenir.
Derrière l’affirmation du radicalisme islamiste se trouve une autre bataille, de plus vaste ampleur : celle de l’ordre social et idéologique. Elle concerne la définition de l’identité bengalaise et le rôle que doit avoir l’islam, et quelle forme d’islam, au sein de la transition sociale et culturelle qui a conduit au XXI° siècle un pays divisé entre une majorité ancrée dans les traditions culturelles et sociales du monde rural et une minorité qui détient le pouvoir et est influencée par des modèles alternatifs exogènes. Les groupes djihadistes constituent également une réponse à cette transition, exploitant les nouvelles fractures sociales et identitaires, des fractures qui viennent se greffer sur une fracture plus profonde qui caractérise le Bangladesh depuis sa fondation : celle entre ceux qui pensent le pays comme séculier et libéral, comme l’indique la Constitution de 1973, et ceux qui aspirent en revanche à une nation fondé sur l’islam en tant que religion d’Etat, ainsi que le proclame l’amendement constitutionnel de 1988. Plus que dans la pauvreté, c’est au sein de ces éboulements culturels – mal gérés et souvent alimentés par la politique institutionnelle – que doivent être recherchées les matrices du radicalisme islamiste.
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Bangladesh: Análisis de las raíces del extremismo islamista
La corrupción, la pobreza y la desigualdad social alimentan la propaganda de los grupos yihadistas que aspiran a adoctrinar también a los jóvenes bangladesíes.
“Aquí en Bangladesh son muchos los factores que conducen al reclutamiento en las filas yihadistas. Los procesos de radicalización islamistas tienen raíces históricas que es necesario considerar y que van más allá del binomio pobreza-extremismo”.
Shahab Enam Khan, docente de relaciones internacionales en la universidad de Daca y miembro del Enterprise Institute, ha estudiado en profundidad los movimientos radicales islamistas. En una reciente entrevista con Fides, en su oficina del barrio de Gulshan de la capital bangladesí, recuerda que, para comprender el crecimiento del salafismo yihadista y los desafíos del futuro, es necesario primero mirar al pasado, al periodo inmediatamente posterior a la independencia del país conseguida en 1971 tras la sangrienta guerra por la liberación del control de Pakistán. Shahab Enam Khan asegura que la proliferación del radicalismo de matriz islamista depende de factores como la polarización política creada en los años posteriores a la independencia, cuando los partidos y los movimientos políticos luchaban entre sí en nombre de diferentes principios e ideologías, mientras que evidenciaban cada vez más su incapacidad institucional de garantizar un gobierno eficiente. A partir de aquí, el vacío político comenzó a llenarse con nuevos movimientos islamistas radicales cuya estrategia de reclutamiento se concentró precisamente en la crítica al establishment, en su incapacidad de garantizar servicios y derechos a la mayoría de la población. La corrupción de la maquinaria administrativa y estatal, junto a la del ámbito de la justicia, proporcionaron otros elementos que alimentaron esta propaganda.
En años recientes se ha añadido otro factor: la contradicción entre el crecimiento económico del país, -que solo beneficia a una élite urbana y culta-, y la falta de inclusión de la mayoría de la población, sobre todo, la de las áreas rurales. Según datos recientes del Asian Development Bank, el PIB de Bangladesh en 2017 ha crecido más del 7% y las previsiones para 2018 lo sitúan al mismo nivel. Pero el crecimiento no es inclusivo y la pobreza persiste, según se desprende de los informes del Bangladesh Bureau of Statistics y del Banco Mundial: cerca del 30% de la población vive bajo el umbral de la pobreza nacional; el 17% (unos 25 millones) sufre pobreza extrema; la tasa de desempleo está en el 4%; anualmente unos 2.700.000 jóvenes aspiran a entrar en el mercado laboral pudiendo hacerlo solo un cuarto de ellos; y el salario mensual medio permanece congelado en los 5.500 taka (60 euros), un tercio de lo que se necesitaría para vivir dignamente.
Estos factores han servido para alimentar la retórica de los varios grupos locales que orbitan en la galaxia radical. La propaganda circula por los más variados canales de distribución, desde panfletos distribuidos clandestinamente en las áreas rurales y las periferias de las ciudades, al boca a boca pasando por las siempre accesibles y baratas redes sociales. En estos últimos canales de comunicación anida esta retórica yihadista, especialmente desde la instauración del autodenominado Estado Islámico en el verano de 2014. La retórica tanto del grupo encabezado por su autoproclamado califa Abu Bakr al-Baghdadi y como la anterior de al-Qaeda. El número uno de al-Qaeda, el egipcio Ayman al-Zawahiri, y su rival, al-Baghdadi, miran con especial interés al subcontinente indio, una cantera para un reclutamiento potencial enorme. Con sus 172 millones de musulmanes, y una conflictividad intermitente pero constante entre las varias comunidades religiosas, la India representa un jugoso bocado.
Bangladesh, país con el cuarto número más alto de población musulmana en el mundo y con un gobierno laico nacionalista encabezado por Sheikh Hasina de la Awami League, y detestado por los islamistas, es el próximo objetivo. No es casualidad que, en septiembre de 2014 al-Zawahiri anunciara la creación de al-Qaeda en el subcontinente indio (Aqis). A diferencia del líder del Estado Islámico que se ha interesado en el sudeste asiático hace relativamente poco, aquí las raíces de al-Qaeda son sólidas, se basan en alianzas, contactos e información consolidada a lo largo de decenios a partir de los años 90, tiempo de la resistencia de los muyahidines afganos contra la ocupación soviética. En aquella yihad participaron unos 3.400 bangladesíes. Parte de ellos formaron en 1992 el grupo Harkat-ul-Jihad-al-Islami Bangladesh (marca local del grupo paquistaní) que en 2005 inauguró una ambiciosa agenda para la toma del poder en un plazo de 10 años, contenida finalmente por las fuerzas de seguridad. Desde finales de los años 90 y comienzos de los 2000, -explica a Fides el profesor Shahab Enam Khan-, han dominado la escena otros dos grupos: Jamaitul Mujahedin Bangladesh y Jagrata Muslim Janata Bangladesh, responsables de unas 500 explosiones en todo el país durante 2005. Son grupos que dependen de una red de activistas en las zonas rurales y en los suburbios metropolitanos, compuestos principalmente por jóvenes sin educación, pobres, marginados, excluidos del mercado laboral, privados de oportunidades de redención social y, por tanto, llenos de resentimiento.
Pero la pobreza extendida y la escasa instrucción no solo explican el crecimiento del fundamentalismo islamista. También en Bangladesh, como en otros lugares, en la movilización yihadista hay que tener en cuenta otros factores, tal y como ha explicado el sociólogo Diego Gambetta en el libro “Ingenieros de la yihad. La sorprendente relación entre instrucción y extremismo”. Es lo que demuestran las biografías de algunos yihadistas bangladesíes. El líder de Jagrata Muslim Janata Bangladesh, Bangla Bahi (conocido también como Siddiqul Islam y Aziz Ur-Rahman, juzgado en 2007), era licenciado en literatura bangladesí. Cuatro de los cinco yihadistas responsables del ataque de julio de 2016 contra el Holey Artisan Bakery de Daca reivindicado por el Estado Islámico, provenían de familias ricas, privilegiadas y tenían estudios y un buen futuro por delante.
Tras el auge del radicalismo islamista hay otra batalla de mayor alcance. Es de naturaleza social e ideológica. Se hace necesario clarificar la identidad bangladesí y qué papel tiene que tener el islam, -y qué tipo de islam-, dentro de una transición social y cultural que ha conducido a un país divido en siglo XXI entre una mayoría anclada a condiciones culturales y sociales del mundo rural y una minoría que detenta el poder y la influencia con modelos alternativos y exógenos. Los grupos yihadistas nacen también una respuesta a esta transición. Se aprovechan de las nuevas fracturas sociales e identitarias. Fracturas que generan la grieta más visible de Bangladesh desde su fundación: entre los que piensan en un país secular y liberal, -como recoge la primera constitución de 1973-, y los que aspiran a una nación fundada sobre el islam como religión de Estado, -como señala la enmienda constitucional de 1988-. Más que en la pobreza, es necesario fijarse en estos condicionamientos culturales, -mal gestionados y en muchas ocasiones alimentados por la política institucional-, que son los que se encuentran en la matriz del radicalismo islamista.