Robert Mugabe a 93 anni ha lasciato il potere, dopo aver governato per 37 lunghissimi anni. Un golpe organizzato dai militari ha messo fine alla sua lunga carriera politica. Mugabe lascia un paese in ginocchio dal punto di vista sociale, economico e politico. Che futuro avrà ora lo Zimbabwe? La speranza è ripartire dalla democrazia e dal rispetto dei diritti umani
ENGLISH -
FRANÇAIS -
ESPAÑOL -
Il “Vecchio Elefante” ha lasciato il potere. Ha governato per 37 lunghissimi anni e, se fosse stato per lui, si sarebbe ricandidato nel 2018 e avrebbe governato ancora. Quanto? Non si sa perché Robert Mugabe ha 93 anni, una salute non più solida come un tempo e molti avversari. Non è quindi un caso che un golpe organizzato dai militari abbia messo fine alla sua lunga carriera di uomo politico spregiudicato, vanesio e violento. Lui stesso in passato si è paragonato a Hitler e, come il führer vedeva negli ebrei il nemico ancestrale della razza ariana, per Mugabe «l’unico bianco affidabile è quello morto». Un razzismo, nato nel clima della battaglia anticoloniale. «Sono l’Hitler di questi tempi - ha detto -. Questo Hitler ha un solo obiettivo: giustizia per il suo popolo, sovranità per il suo popolo, riconoscimento dell’indipendenza del suo popolo e dei suoi diritti sulle sue risorse. Se questo è Hitler, che io sia Hitler dieci volte». Mugabe lascia un paese in ginocchio dal punto di vista sociale, economico e politico. Che futuro avrà ora lo Zimbabwe? Per comprendere al meglio le dinamiche del presente, bisogna fare un salto nel passato.
Un razzismo al contrario
Il Vecchio Elefante è nato nell’ex Rhodesia. Allora la Rhodesia era una colonia britannica nella quale vigeva un rigido sistema di apartheid. Forse ancora più rigido di quello applicato nel vicino Sudafrica. Qui una piccola minoranza bianca britannica (290mila persone) governava con il pugno di ferro una vasta maggioranza di neri (circa cinque milioni). Le migliori terre erano state requisite alle popolazioni locali e date ai white farmers. A differenza dello Zambia e del Malawi, dove i colonizzatori britannici avevano, fin dagli anni Cinquanta, accettato di lasciare il potere politico alla maggioranza nera, in Rhodesia, i bianchi si erano sempre opposti a una decolonizzazione che li ponesse ai margini della società. Da qui è nata la dichiarazione unilaterale di indipendenza che, nel 1964, ha portato la Rhodesia a staccarsi dalla madrepatria britannica e a procedere su una strada autonoma, creando uno Stato fortemente razzista sotto la guida del presidente Ian Smith.
In questo contesto, Mugabe ha preso le redini della lotta di liberazione. Formazione cattolica (ha studiato dai Gesuiti) e poi lauree in Sudafrica e in Gran Bretagna, ha abbracciato le idee marxiste e, insieme alla prima moglie, Sally Hayfron ha iniziato a lottare contro il regime bianco. Una lotta che lo ha portato in carcere. Sarà detenuto per dieci anni in un regime molto duro e non gli sarà permesso di uscire neppure per assistere al funerale del figlio. Ma, una volta libero, riprende la lotta contro il governo segregazionista. Al suo fianco presto si schierano il Mozambico e l’Angola, appena divenuti indipendenti, e gran parte del blocco sovietico. È una lotta resa complicata dalle divisioni etniche (tra gli shona, etnia maggioritaria, e gli ndebele, minoritari) e dalle divisioni del blocco socialista, con fazioni contrapposte che hanno come punto di riferimento la Cina piuttosto che l’Unione Sovietica. Ian Smith, però, si rende conto che il suo Paese è sempre più isolato e non riesce a far fronte all’offensiva dei ribelli marxisti. Decide così di venire a patti con il nemico, soprattutto con quello più duro, cioè Mugabe. Le aperture di Ian Smith portano agli accordi di Lancaster House sotto l’egida della Gran Bretagna. L’intesa prevede un passaggio di poteri alla maggioranza nera e una tutela degli interessi economici della minoranza bianca. Ma è proprio lì che si trovano le radici che faranno crescere la pianta della successiva crisi politica degli anni Duemila.
La riforma agraria
La distribuzione delle terre da parte del governo è forse la questione politica più importante e più aspramente contestata dello Zimbabwe. L’accordo di Lancaster House prevedeva un percorso che avrebbe dovuto portare a una ridistribuzione delle terre attraverso il principio del «willing buyer, willing seller», con aiuti economici dalla Gran Bretagna. iIl processo si è, però, rivelato troppo lento. Il malcontento della popolazione nera, acuito dagli aggiustamenti strutturali imposti dalle autorità economiche internazionali, è diventato sempre più forte. Mugabe ha iniziato a capire che così rischiava di perdere il potere. Alla fine degli anni Novanta e poi, a partire dal 2000, ha dato quindi l’avvio a un programma brutale di riforma agraria. Mugabe ha incitato i veterani della guerra di indipendenza a prendersi le tenute dei white farmers. I latifondisti bianchi hanno cercato di resistere, ma molti di essi sono stati aggrediti e alcuni sono stati addirittura uccisi. Le loro terre sono state occupate. Le migliori vengono requisite dai gerarchi di Mugabe che, non avendo competenze agricole, non le coltivano. Altre sono occupate da contadini neri che non sanno gestire grandi tenute. Il risultato è un crollo drastico della produzione agricola e il tracollo dell’economica dello Zimbabwe. Nel 2001, lo Zimbabwe era il sesto produttore mondiale di tabacco. Nel 2008 la produzione si era ridotta al 21% di quella di sette anni prima. Una nazione la cui agricoltura era così fiorente da guadagnarle il nome di «cesto del pane» dell’Africa meridionale, diventa incapace di nutrire la sua stessa popolazione. Si susseguono crisi alimentari e il Paese è costretto a importare derrate alimentari.
Va dato atto che Robert Mugabe, nei primi anni del suo governo aveva cercato di far crescere, almeno dal punto di vista sociale, lo Zimbabwe. Aveva varato una riforma del sistema educativo, riducendo drasticamente l’analfabetismo e portando al 91% la percentuale dei ragazzi e delle ragazze in grado di leggere e scrivere. Le infrastrutture lasciate dai bianchi sono state, almeno inizialmente, tenute con cura. Il paese era quindi servito da un’ottima rete di strade, ponti, ferrovie e aeroporti. Ma fin dall’inizio, è stata chiara la sua impronta dittatoriale. Nei primi anni del suo governo ordina una durissima repressione della minoranza ndebele, considerata troppo minacciosa per il suo potere. Invia nel Matabeleland la Quinta Brigata dell’esercito che, sotto la guida da consiglieri militari nordcoreani, negli anni Ottanta stermina tra le 10 e le 30mila persone. Che Mugabe non sia un difensore dei diritti umani lo si capisce anche dalle sue dichiarazioni. Uno dei suoi bersagli preferiti sono gli omosessuali. Il Vecchio Elefante approfitta di ogni occasione - assemblee dell’Onu incluse - per esternare la sua avversione nei confronti dei gay, che in Zimbabwe vengono sovente incarcerati. Secondo Mugabe «gli omosessuali sono peggio dei maiali perché il verro è in grado di riconoscere la scrofa» e «non vale la pena discutere di diritti dei gay, non sono cose che possiamo tollerare, altrimenti i morti si rivolterebbero contro di noi».
La successione
In questo contesto, negli ultimi anni si è scatenata una durissima lotta per la successione. La moglie Grace, soprannominata «Gucci Grace» per la sua smodata passione per il lusso, diventa la principale consigliera del marito e si fa nominare alla guida della lega delle donne di Zanu-Pf. Poi diventa leader del gruppo di giovani del partito. L’ambizione della first lady si scontra però con la frangia dura e pura del partito. Quella formata dai veterani della guerra di indipendenza e dalle forze armate. Il leader di questa corrente è il vicepresidente Emmerson Mnangagwa, un personaggio ambizioso che negli anni, alla guida del ministero della Difesa e dei servizi segreti, si è fatto carico dei più sporchi problemi del regime e da sempre ambisce alla successione. Grace ne vuole la testa e Mugabe gliela offre. Il 6 novembre, Mugabe lo licenzia. Lui fugge in Sudafrica per mettersi al riparo da possibili rappresaglie. Ma lui stesso medita la vendetta. Dietro il golpe delle forze armate del 15 novembre, notano gli analisti, c’è sicuramente lui. Non è un caso che, domenica 19 novembre, lo Zanu-Pf licenzia Mugabe dalla carica di segretario e nomina proprio lui. E non è un caso che sarà lui a prendere il posto di Mugabe, almeno fino a nuove elezioni, alla presidenza. Cosa cambierà? Difficile dirlo. Se Mnangagwa prenderà il potere e lo terrà saldamente, probabilmente cambierà poco o nulla sotto il profilo delle regole democratiche e del rispetto dei diritti umani. La vera incognita è se l’opposizione, guidata da Morgan Tsvangrai e dal suo Movimento per il cambiamento democratico, riusciranno ad avere un ruolo. Ma questo lo si scoprirà solo nel prossimi mesi.
-- ---
ENGLISH ---
Zimbabwe: “Old Elephant” adieu, the wish is for democracy
The “Old Elephant” relinquishes his power. He governed for 37 long years and, had it been up to him, would have run for another term in 2018 and carried on. For how long? No one can say because Robert Mugabe is 93 years old, his health is not as good as it was and he has many adversaries. Not by chance it was a coup organised by the military which put an end to the long career of this political, unscrupulous, vain and violent man. He went as far as to compare himself to Hitler and, like the Führer, he saw the Jews as the ancestral enemy of the Arian race, for Mugabe «the only white man you can trust is a dead white man». A form of racism, born in a climate of the anticolonial battle. «I am the Hitler of our times – he said -. This Hitler has only one aim: justice for his people, recognition of their independence, rights and resources. If this is Hitler, then let me be Hitler tenfold». Mugabe leaves a country on its knees from the social, economic and political point of view. What future for Zimbabwe? To understand the dynamics of the present, we must return to the past.
Racism in reverse
The Old Elephant was born in the then Rhodesia, a British colony, ruled by a rigid system of apartheid. Perhaps even more rigid than the one applied in neighbouring South Africa. Here a small white British minority (290,000 people) governed with an iron fist a vast majority of blacks (about five million). The best lands were taken from the local people and given to white farmers. Unlike Zambia and Malawi, where British colonizers had, since the 1950s, agreed to leave political power to the black majority, in Rhodesia the white population had always opposed de-colonization that would push them to the margins of society. This led to a unilateral declaration of independence, which in 1964, brought Rhodesia to detach herself from the British motherland and proceed on an autonomous path, creating a strongly racist state under the guidance of its president Ian Smith.
In this context, Mugabe took up the reins of the struggle for liberation. After a Catholic education (Jesuit school) degrees in South Africa and in Great Britain, he embraced Marxist ideas and, together with his first wife, Sally Hayfron led a struggle against the white regime. A battle for which he was incarcerated. Detained for ten years under a harsh regime, he was not even allowed to go to the funeral of his son. However, once free, he resumes the fight against the segregationist government. He is soon flanked by Mozambique and Angola, only just independent, and the greater part of the Soviet Block . The struggle is complicated with ethnic divisions (between the Shona majority and the Ndebele, minority) and divisions in the socialist Block, with opposing factions with China instead of the Soviet Union as the point of reference. But Ian Smith is aware that his country is ever more isolated and unable to face an offensive on the part of Marxist rebels. However manoeuvring by Ian Smith leads to the Lancaster House agreements under the aegis of Britain. The agreement entails a transferral of powers to the black majority while safeguarding the economic interests of the white minority. However precisely there lie the roots of the next crisis of the early years of the second millennium.
Farming reforms
The distribution of land by the government is perhaps the most important and most bitterly contested political matter in Zimbabwe. The Lancaster House accords agreed to equitable compensation in the distribution of farmland. This led to a redistribution of farmland by means of the principle «willing buyer, willing seller», with economic assistance from Great Britain. But the process proved too slow. The discontent of the black population exacerbated by structural adjustments imposed by international economic authorities, grew ever stronger. Mugabe realised that he was in danger of losing power. At the end of the 1990s, and at the beginning of the year 2000, he launched therefore a brutal plan of land reform. Mugabe incited veterans of the war of independence to take the white farmers’ properties. The white farmers tried to resist but many were attacked and some even killed. Their lands were occupied. The best areas were taken by the Mugabe hierarchy who, having no farming skills, neglected them. Other areas were occupied by black farmers unable to run large estates. The result was a drastic fall in farming and the economic collapse of Zimbabwe. In 2001 Zimbabwe was the world’s sixth largest producer of tobacco. In 2008 tobacco production was 21% of what it had been seven years earlier. A country so flourishing as to earn itself the name southern Africa’s ‘bread basket’, cannot even feed its own people. There follow a series of food crises and the country is forced to import foodstuffs.
It must be said that Robert Mugabe, in the first years of his government did try to make Zimbabwe grow, at least from the social point of view. He launched a reform of the education system which drastically reduced illiteracy and brought the percentage of children able to read and write up to 91%. Infrastructures left by the whites, at least initially, were well kept. The country therefore was served by an excellent network of roads, bridges, railways and airports. But from the beginning his dictatorial imprint was clear. During the first year of his government he orders a harsh repression of the Ndebele minority, considered too much of a threat to his power. He sends to Matabeleland the Fifth Brigade of the Zimbabwe army which, led by North Korean soldiers, massacres in the 1980s between 10 and 30 thousand people. That Mugabe was no defender of human rights appears clearly in his speeches. One of his preferred targets was homosexuality. The Old Elephant takes every opportunity - including UN assemblies – to demonstrate his aversion to homosexuals, who in Zimbabwe are often incarcerated. Mugabe said «homosexuals are worse than pigs, because the boar is able to distinguish the sow » and «there is no point in discussing gay rights, we cannot tolerate such things, otherwise the dead will revolt against us ».
Succession
In this context, recent years have seen the unleashing of a fierce fight for succession. His wife Grace, also known as ‘Gucci Grace’ because of her excessive passion for luxuries, becomes the principal counsellor of her husband and she has herself appointed head of the Zanu-Pf Women’s League. Then she becomes the leader of the Party’s youth group. But the ambition of the first lady clashes with the hard pure fringe of the Party. The fringe composed of veterans of the war of independence and the armed forces. The fringe leader is vice president Emmerson Mnangagwa, an ambitious character who in years as the head of the Ministry of Defence and the Secret Service, dealt with some of the regime’s dirtiest business, while always seeking succession. Grace wants his head and Mugabe obliges. On 6 November, Mugabe fires him. Sheltering in South Africa fearing possible reprisals, he plots revenge. Analysts are certain he was behind the 15 November army coup. Not by chance on Sunday 19 November, Zanu-Pf dismisses Mugabe as secretary appointing in his place precisely Emmerson Mnangagwa. Not by chance, he will take the place of Mugabe, at least until there are new elections for the presidency. What will change? Difficult to say. If Mnangagwa takes power and holds it firmly, probably little or nothing will change at least as far as democratic rules and respect for human rights are concerned. The real incognita is whether the Opposition, led by Morgan Tsvangrai and his Movement for Democratic Change, will succeed in having a role. But this will only be seen in the months ahead.
--
FRANÇAIS ---
Zimbabwe : adieu au « vieil éléphant », dans l’attente de la démocratie
Le « Vieil Eléphant » a quitté le pouvoir. Il aura gouverné pendant 37 longues années et, si cela avait été en son pouvoir, il se serait à nouveau porté candidat en 2018 et aurait gouverné encore. Pour combien de temps encore ? Impossible de le savoir. Robert Mugabe a 93 ans, une santé qui n’est plus aussi solide que par un temps et de nombreux adversaires. Ce n’est donc pas un hasard qu’un coup d’Etat organisé par les militaires ait mis fin à sa longue carrière d’homme politique sans scrupules, vaniteux et violent. Lui-même, par le passé, s’était comparé à Hitler et, comme le Führer, il voyait dans les juifs l’ennemi ancestral de la race arienne. Pour Mugabe en effet, « le seul blanc fiable est un blanc mort » : un racisme né dans le contexte de la bataille anticoloniale. « Je suis le Hitler des temps présents – a-t-il dit. Cet Hitler a un seul objectif : la justice pour son peuple, la souveraineté pour son peuple, la reconnaissance de l’indépendance de son peuple et de ses droits sur ses ressources. Si cela est être Hitler, je veux être dix fois Hitler ». R. Mugabe laisse un pays à genoux d’un point de vue social, économique et politique. Quel avenir connaîtra désormais le Zimbabwe ? Pour mieux comprendre les dynamiques du présent, il est nécessaire de faire un saut dans le passé.
Un racisme anti-blancs
Le « Vieil Eléphant » est né dans l’ancienne Rhodésie. Alors, le pays était une colonie britannique dans laquelle était en vigueur un système rigide d’apartheid, peut-être plus rigide encore que celui appliqué en Afrique du Sud. Là, une petite minorité blanche britannique – 290.000 personnes – gouvernait d’une main de fer une très grande majorité de noirs – quelques 5 millions. Les meilleurs terrains avaient été réquisitionnées aux populations locales et confiées à des fermiers blancs. A la différence de la Zambie et du Malawi, où les colonisateurs britanniques avaient, dès les années 1950, accepté d’abandonner le pouvoir politique à la majorité noire, en Rhodésie, les blancs s’étaient toujours opposés à une décolonisation qui les aurait placé en marge de la société. De là est née une déclaration unilatérale d’indépendance qui, en 1964, porta la Rhodésie à se séparer de la Grande-Bretagne et à procéder sur une voie autonome, en créant un Etat fortement raciste sous la conduite du Président Ian Smith.
Dans ce contexte, R. Mugabe prit les reines de la lutte pour la libération. De formation catholique – il a étudié chez les Jésuites – disposant de diplômes de l’enseignement supérieur obtenus en Afrique du Sud et en Grande-Bretagne, il a embrassé les idées marxistes et, en compagnie de sa première épouse, Sally Hayfron, il a commencé à lutter contre le régime blanc, une lutte qui l’a porté en prison. Il sera détenu pendant dix ans sous un régime très dur et il ne lui sera pas même permis de sortir pour assister aux obsèques de son fils. Cependant, une fois remis en liberté, il reprend la lutte contre le gouvernement ségrégationniste. A ses côtés, se rangent rapidement le Mozambique et l’Angola, à peine devenus indépendants et une grande partie du bloc soviétique. Il s’agit d’une lutte rendue compliquée par les divisions ethniques – entre les shonas, ethnie majoritaire, et les ndebeles, minoritaires – ainsi que par les divisions du bloc socialiste, avec des factions opposées qui ont comme référence la Chine plutôt que l’URSS. Ian Smith se rend cependant compte que son pays est de plus en plus isolé et qu’il ne parvient pas à faire face à l’offensive des rebelles marxistes. Il décide ainsi d’offrir une entente à l’ennemi, en particulier le plus dur, à savoir R. Mugabe. Les ouvertures de Ian Smith portent aux accords de Lancaster House, signés sous l’égide de la Grande-Bretagne. L’entente prévoit un passage des pouvoirs à la majorité noire et la protection des intérêts économiques de la minorité blanche. Cependant, c’est là que se trouvent les racines qui feront grandir la plante de la crise politique des années 2000.
La réforme agraire
La distribution des terrains de la part du gouvernement constitue peut-être la question politique la plus importante et la plus âprement contestée du Zimbabwe. L’accord de Lancaster House prévoyait un parcours qui aurait dû porter à une redistribution des terres au travers le principe « vendeur consentant, acheteur consentant », avec des aides économiques britanniques. Le processus s’est cependant révélé trop lent. Le mécontentement de la population noire, renforcé par les ajustements structurels imposés par les autorités économiques internationales, est devenu toujours plus fort. R. Mugabe a commencé à comprendre qu’ainsi il risquait de perdre le pouvoir. A la fin des années 1990 puis à compter de 2000, il a par suite donné le coup d’envoi à un programme brutal de réforme agraire. Il a ainsi incité les vétérans de la guerre d’indépendance à s’emparer sur les domaines des fermiers blancs. Ces derniers ont cherché à opposer une certaine résistance mais nombre d’entre eux ont été agressés et quelques-uns même tués. Leurs terres ont été occupées. Les meilleures ont été réquisitionnées au profit des personnalités du régime qui, ne disposant pas de compétences agricoles, ne les cultivent pas. D’autres sont occupées par des paysans noirs qui ne savent pas gérer d’aussi grandes exploitations. Le résultat en est un effondrement de la production agricole et le krach de l’économie du pays. En 2001, le Zimbabwe était le sixième producteur mondial de tabac. En 2008, sa production s’était réduite de 21% par rapport à celle de sept ans auparavant. Une nation dont l’agriculture était fleurissante au point de s’adjuger le nom de « panier à pain » de l’Afrique méridionale, devient incapable de nourrir sa propre population. Les crises alimentaires se succèdent et le pays est contraint à importer des denrées alimentaires.
Il faut reconnaître que Robert Mugabe, au cours des premières années de son gouvernement, avait cherché à faire croître le Zimbabwe, au moins du point de vue social. Il avait adopté une réforme du système éducatif, réduisant drastiquement l’analphabétisme et portant à 91% de la population les jeunes sachant lire et écrire. Les infrastructures laissées par les blancs ont été, au moins au départ, entretenues avec soin. Le pays était par suite desservi par un excellent réseau comprenant routes, ponts, voies ferrées et aéroports. Mais, depuis le début, son caractère dictatorial a été évident. Au cours des premières années de son gouvernement, il ordonna une répression très dure envers la minorité ndebele, considérée comme trop menaçante pour son pouvoir. Il envoya au Matabeleland la V° Brigade de l’Armé qui, sous la conduite de conseillers militaires nord-coréens, extermina dans les années 1980 entre 10.000 et 30.000 personnes. Que R. Mugabe n’est pas un défenseur des droits fondamentaux, il est facile de le comprendre également sur la base de ses déclarations. L’une des ses cibles favorites est la catégorie des homosexuels. Le « Vieil Eléphant » profite de toutes les occasions utiles – Assemblée de l’ONU inclue – pour faire montre de son aversion envers les homosexuels qui sont souvent incarcérés au Zimbabwe. Selon R. Mugabe, « les homosexuels sont pire que les cochons parce que le verrat est en mesure de reconnaître la truie » et « il ne vaut pas la peine de discuter de droit des homosexuels. Ce ne sont pas des choses que nous pouvons tolérer, autrement les morts se retourneraient contre nous ».
La succession
Dans ce contexte, au cours de ces dernières années, s’est déclenchée une lutte très dure en vue de la succession. Son épouse, Grâce, surnommée « Gucci Grâce » à cause de sa passion démesurée pour le luxe, devient le principal conseiller de son mari et se fait nommer à la tête de la Ligue des femmes du ZANU-PF. Elle devient ensuite le responsable du groupe des jeunes du parti. L’ambition de la première dame doit cependant compter avec l’opposition de la frange pure et dure du parti, celle formée par les vétérans de la guerre d’indépendance et par les forces armées. Le responsable de ce courant est le Vice-président, Emmerson Mnangagwa, un personnage ambitieux qui, au fil des ans, à la tête du Ministère de la Défense et des Services, s’est chargé des plus basses besognes du régime et vise depuis toujours à s’assurer la succession. Grâce Mugabe veut sa tête et son mari la lui offre. Le 6 novembre dernier, R. Mugabe le destitue. Il s’enfuit en Afrique du Sud, pour échapper à de possibles représailles. Cependant, il médite lui-même une vengeance. Derrière le coup d’Etat militaire du 15 novembre, remarquent les analystes, se trouve certainement cet homme. Ce n’est pas un hasard si, Dimanche 19 novembre, le ZANU-PF destitue R. Mugabe de ses fonctions de Secrétaire et nomme à sa place ce même Emmerson Mnangagwa. Ce n’est pas un hasard non plus qu’il prenne la place de R. Mugabe, au moins jusqu’à de nouvelles élections, à la Présidence. Quels changements s’attendre? Il est difficile de le dire. Si Emmerson Mnangagwa devait prendre le pouvoir et le tenir de manière solide, les changements seront probablement peu nombreux sous le profil des règles démocratiques et en matière de respect des droits fondamentaux. La véritable inconnue pourrait consister dans l’éventuel rôle que pourrait jouer l’opposition, conduite par Morgan Tsvangrai et son Mouvement pour le changement démocratique. Mais cela, il ne sera possible de s’en apercevoir qu’au cours des prochains mois.
---
-
ESPAÑOL ---
Zimbabue: Adiós al “Viejo Elefante”, esperanzas de democracia
El “Viejo Elefante” ha dejado el poder. Gobernó durante 37 larguísimos años y, si hubiera sido por él, se hubiera vuelto a presentar en 2018 y habría continuado gobernando. ¿Por cuánto? No se sabe porque Robert Mugabe tiene 93 años, una salud ya no tan de hierro como antes.
No ha sido una casualidad que un golpe militar haya puesto fin a su larga carrera de hombre político despreocupado, vanidoso y violento. En el pasado, él mismo se comparó a Hitler y, tal y como el Führer veía a los judíos como un enemigo ancestral de la raza aria, para Mugabe “el único blanco fiable es el blanco muerto”. Un racismo nacido del clima bélico anticolonial. “Soy el Hitler de este tiempo, -llegó a decir-. Este Hitler tiene un solo objetivo: justicia para su pueblo, soberanía para su pueblo, reconocimiento de la independencia de su pueblo, de sus derechos y de sus riquezas. Se esto es ser Hitler, soy Hitler a la enésima potencia”. Mugabe deja un país mermado desde el punto de vista social, económico y político. ¿Qué futuro tendrá ahora Zimbaue? Para comprender mejor las dinámicas del presente, hace falta volver al pasado.
Un racismo al contrario
El “Viejo Elefante” nació en la antigua Rodesia que entonces era una colonia británica en la que había un rígido sistema de apartheid. Quizá incluso más rígido que el que se aplicaba en la vecina Sudáfrica. En Rodesia la pequeña minoría blanca británica (290.000 personas) gobernaba con puño de hierro a una vasta mayoría negra (unos 5 millones). Las mejores tierras fueron requisadas a la población local y entregadas a los white farmers. A diferencia de Zambia o Malawi, donde los colonos británicos habían aceptado desde los años 50 dejar el poder político en manos de la mayoría negra, en Rodesia, los blancos se opusieron siempre a una descolonización que les colocase al margen de la sociedad. De aquí nace la declaración unilateral de independencia que, en 1964, condujo a Rodesia a separarse de la madre patria británica y a actuar de forma autónoma creando un estado muy racista bajo la guía del presidente Ian Smith. En este contexto Mugabe tomó las riendas de la lucha por la liberación. Con formación católica (estudió en los Jesuitas) y graduado en Sudáfrica y Gran Bretaña, abrazó las ideas marxistas junto a su primera mujer, Sally Hayfron, con la que comenzó a luchar contra el régimen blanco. Una lucha que lo confinó en la cárcel donde estuvo 10 años bajo un régimen tan estricto que ni siquiera pudo asistir al funeral de su hijo. Una vez liberado, retomó la lucha contra el gobierno segregacionista. En cuanto Mozambique y Angola obtuvieron su independencia se posicionaron de su lado así como gran parte del bloque soviético. Su lucha se complicó por las divisiones étnicas (entre los shona, la mayoría; y los ndebele, minoritarios) y por las fracturas en el bloque socialista, con facciones opuestas que tenían como referencia a China más que a la Unión Soviética. Ian Smith se dió cuenta entonces de que su país estaba cada vez más aislado y no llegó a hacer frente a la ofensiva de los rebeldes marxistas. Por ello, decide pactar con sus enemigos, especialmente con el más duro, es decir, Mugabe. Las aperturas de Smith conducen a los acuerdos de Lancaster House bajo el auspicio de Gran Bretaña. El acuerdo preveía el paso del poder a la mayoría negra y la tutela de los intereses económicos de la minoría blanca. Es justo ahí donde se planta la semilla que hará germinar la crisis política del año 2000.
La reforma agraria
La distribución de las tierras de parte del gobierno es quizá la cuestión política más importante y que más controversia ha generado en Zimbaue. El acuerdo de Lancaster House debería haber conducido a una redistribución de las tierras a través del principio “willing buyer, willing seller”, con ayuda económica de Gran Bretaña. Sin embargo, el proceso fue demasiado lento. El descontento de la población negra se vio agravado por los ajustes estructurales impuestos por la autoridad económica internacional. Mugabe entendió que esta tensión hacía peligrar su permanencia en el poder. Por eso, al final de los años noventa, y después a partir del 2000, inició un programa radical de reforma agraria. Mugabe incitó a los veteranos de la guerra de la independencia a tomar posesión de las explotaciones de los agricultores blancos. Los latifundistas blancos intentaron resistirse pero muchos fueron agredidos e incluso algunos asesinados. Sus tierras fueron finalmente ocupadas. Las mejores las requisaron los jerarcas de Mugabe que, no teniendo ninguna competencia agrícola, no las cultivaron. Otras fueron ocupadas por campesinos negros que no supieron gestionar estos grandes terrenos. El resultado fue la caída de la producción agrícola y el colapso de la economía de Zimbaue. En el 2001 Zimbaue era el sexto productor mundial de tabaco. En 2008 la producción se redujo un 21% con respecto a la de siete años antes. Una nación en la que la agricultura era tan próspera que en el sur de África se ganó el sobrenombre de “cesta de pan” se volvió incapaz de alimentar a su propia población. Así se sucedieron las crisis alimentarias y el país se vio obligado a importar alimentos.
Cabe destacar que Robert Mugabe, en los primeros años de su gobierno, había tratado de hacer crecer al país desde el punto de vista social. Lanzó una reforma del sistema educativo que redujo drásticamente el analfabetismo y elevó al 91% el porcentaje de niños y niñas que leen y escriben. Las infraestructuras que dejaron los blancos se mantuvieron intactas al principio por lo que el país contaba con una buena red de carreteras, puentes, ferrocarriles y aeropuertos. Pero desde el minuto uno se pudo percibir claramente su sello dictatorial. En los primeros años su gobierno ordenó una durísima represión de la minoría ndebele, por considerarla demasiado amenazante para su poder. Envió a Matabeleland la Quinta Brigada del Ejército bajo la guía de asesores militares norcoreanos y en la década de 1980 exterminó entre 10 y 30.000 personas. Que Mugabe no es un defensor de los derechos humanos también se puede deducir a partir de sus declaraciones. Uno de sus objetivos favoritos son, por ejemplo, los homosexuales. El “Viejo Elefante” aprovecha cualquier ocasión, -incluidas las asambleas de la ONU-, para expresar su aversión hacia los gays, que en Zimbaue son encarcelados. Según Mugabe, “los homosexuales son peor que los cerdos porque el cerdo es capaz de reconocer a la cerda” y “no vale la pena discutir los derechos de los gays, no son cosas que podamos tolerar. Si fuera así, los muertos se revelarían contra nosotros”.
La sucesión
En este contexto, en los últimos años se desencadenó una durísima lucha por la sucesión. La mujer, Grace, llamada “Gucci Grace” por su desmedida pasión por el lujo, se convirtió en la principal consejera del marido y se situó al frente de la liga de las mujeres Zanu-Pf. Después lideró el grupo de jóvenes del partido. La ambición de la primera dama chocó entonces con un sector duro y puro del partido, el formado por los veteranos de la guerra de independencia y de las fuerzas armadas. El líder de esta corriente y vicepresidente Emmerson Mnangagwa, era un personaje ambicioso, que hace años dirigía el ministerio de la Defensa y de los servicios secretos, y que se hizo cargo de los asuntos más sucios del régimen. Además, siempre ambicionó ser el sucesor. Grace, consciente de ello, pidió su cabeza y Mugabe se la otorgó. El 6 de noviembre Mugabe lo expulsó de su gobierno. Él huyó a Sudáfrica para evitar posibles represalias y allí urdió su venganza. Según los analistas, probablemente él esté detrás del golpe perpetrado por los militares el pasado 15 de noviembre. No es casualidad que el domingo 19 de noviembre el Zanu-Pf haya relevado a Mugabe de su cargo de secretario y nombrado a Mnangagwa. Y no será casualidad tampoco que él sea quien ocupe el puesto de Mugabe, al menos, hasta las próximas elecciones presidenciales. ¿Qué cambiará? Es difícil decirlo. Si Mnangagwa toma el poder y lo mantiene probablemente cambiará poco o nada en términos de reglas democráticas o respeto de los derechos humanos. La auténtica incógnita es si la oposición, guiada por Morgan Tsvangrai y su Movimiento por el cambio democrático, llegará a desempeñar algún papel. Esto solo se sabrá en los próximos meses.