L’Istituto comboniano fu fondato da Daniele Comboni il 1° giugno 1867 come Istituto per le Missioni della Nigrizia e trasformato in congregazione religiosa nel 1885, quattro anni dopo la morte del suo fondatore. Subito dopo la prima guerra mondiale, l’Istituto si divise in due istituti distinti; questa divisione sarà sanata nel 1979 e il nome del nuovo Istituto sarà Missionari Comboniani del Cuore di Gesù (MCCJ). Le sfide che l’Istituto deve affrontare nei prossimi anni sono essenzialmente quattro: considerare l’Europa come ambito di missione, la necessità di servizi pastorali specifici, l’indispensabile conversione circa la comprensione del povero come soggetto di missione e la sfida a costruire un Istituto interculturale.
FRANÇAIS
Celebrare il 150° anniversario dell’Istituto fondato da san Daniele Comboni significa rivisitare gli obiettivi che Papa Francesco ha proposto ai consacrati in occasione dell’Anno della Vita Consacrata nel 2014: guardare al passato con gratitudine celebrando nella memoria grata la figura di san Daniele, il suo amore intenso per l’Africa, e di chi ne ha condiviso il sogno; vivere il presente con passione, attuando nell’oggi quell’intuizione carismatica che infiammò il cuore di Comboni; abbracciare il futuro con speranza, continuando e riprendendo “il nostro cammino con la fiducia nel Signore”, pur nelle difficoltà e nelle incertezze.
1. Breve storia dell’Istituto
È il 1° giugno del 1867 quando Comboni fonda l’Istituto per le Missioni della Nigrizia. È un istituto di diritto diocesano, composto di sacerdoti e fratelli di varie nazionalità, senza voti religiosi. Ciò che li unisce è un giuramento di appartenenza e di fedeltà all’Istituto e alla missione. La finalità dell’Istituto è l’evangelizzazione dell’Africa. Comboni, nel 1872, fonderà a Verona anche l'Istituto delle Pie Madri della Nigrizia. Il grande missionario muore a Khartoum il 10 ottobre 1881, a cinquant’anni, senza aver potuto dare un fondamento stabile alle sue istituzioni. La rivolta del Mahdi in Sudan, pochi mesi dopo la morte di Comboni, è tragica per le missioni da lui fondate: molti sacerdoti, fratelli e suore vengono fatti prigionieri, alcuni fuggono in Egitto; le missioni sono distrutte. Sembra la fine della missione fondata da Comboni. Ma non sarà così.
I missionari ritornano in Sudan nel 1901, dopo la rivoluzione mahdista e, nel 1910, si spingono verso l’Uganda del nord aprendovi delle missioni. Dai primi del novecento in poi le missioni si sviluppano, crescono, si moltiplicano anche in altre parti del continente e del mondo. Intanto, nel 1885, l’Istituto maschile si era trasformato in congregazione religiosa assumendo un nuovo nome: Figli del Sacro Cuore di Gesù. Il riferimento al Cuore di Gesù raccoglie uno degli elementi essenziali del carisma di Comboni.
Gli esasperati nazionalismi dei primi anni del 1900 che condurranno alla prima guerra mondiale, avranno degli effetti deleteri anche per l’Istituto comboniano maschile. Nel 1923 Roma accetta la divisione in due istituti distinti, ciascuno con un suo nome e le sue missioni: i Figli del Sacro Cuore di Gesù (FSCJ), con casa madre a Verona, e i Missionari Figli del Sacro Cuore (MFSC), in prevalenza di lingua tedesca. Nonostante i rapporti tra i due istituti non si fossero mai totalmente scissi, sarà soprattutto la riscoperta del comune fondatore e del nucleo centrale del carisma – l’evangelizzazione ad gentes per i più poveri e abbandonati – che porterà alla loro riunione in un nuovo Istituto il cui nome è Missionari Comboniani del Cuore di Gesù (MCCJ). Il giorno della riunificazione è altamente simbolico: la festa del S. Cuore nel 1979.
Oggi i missionari comboniani sono circa 1.540 di 44 diverse nazionalità, operanti in 41 paesi di 4 continenti: Africa, America, Asia ed Europa.
2. La missione comboniana
Sotto l’impulso del Vaticano II, i Comboniani non solo riscoprono Comboni come figura di fondazione e la missione ad gentes quale loro orizzonte di impegno, ma riconoscono altresì due importanti criteri di missione: i luoghi e i modi dell’impegno missionario non sono più dati a priori, ma è necessario, invece, mettersi in ascolto dei segni dei tempi per identificare le “situazioni missionarie” e i metodi dell’azione missionaria. Conseguentemente, la missione non è confinata entro stretti parametri geografici ma deve assumere criteri religiosi e socioculturali: al centro dell’azione evangelizzatrice sono i popoli e le culture che la lettura dei segni dei tempi deve individuare.
Negli anni settanta, si parlerà, appunto, di “popoli di frontiera, cioè tribù, minoranze etniche o sociali o altri gruppi minori che non sono ancora evangelizzati e sono rimasti ai margini dell’attuale evoluzione del mondo”. Negli anni successivi si identificheranno alcuni ambiti propri della missione comboniana: in Africa, i popoli non evangelizzati, i nomadi, i pigmei, gli agglomerati urbani; nel continente americano, gli afroamericani, gli indios, gli abitanti delle grandi periferie della città; i popoli non ancora evangelizzati in Asia e gli immigrati in Europa e in America settentrionale. Con l’Africa, però, i comboniani avranno sempre un legame essenziale perché fondato sul carisma e sulla storia.
Essere presenti in quelle “situazioni missionarie” dove abitano i più poveri e abbandonati diventa principio di missione e di scelta dei campi di lavoro. I più poveri e abbandonati sono coloro che, oltre ad essere materialmente poveri, lo sono anche perché non ancora toccati dalla gioia del Vangelo e che, pertanto, attendono la liberazione “dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento”, per dirla con le parole dell’Enciclica Evangelii gaudium di Papa Francesco. In queste “situazioni missionarie” si applicano i tre principi del metodo comboniano di evangelizzazione, retaggio del patrimonio spirituale di Comboni stesso: salvare l’Africa con l’Africa, cioè lavorare con i poveri perchè diventino i veri protagonisti della loro storia e del loro destino; fare causa comune con la gente, che significa condividerne la vita, i sogni, le lotte, le speranze, fino all’estremo dell’immolazione totale della propria vita nel martirio di sangue; infine, evangelizzare come comunità nel senso che la comunità diventa segno e strumento di evangelizzazione, ma anche che la missione richiede collaborazione e sinergia di forze per realizzarsi.
3. Le sfide
Il Capitolo Generale del 2015 ha voluto rileggere la situazione dell’Istituto attraverso le sfide che l’Enciclica Evangelii gaudium poneva. “Discepoli missionari comboniani chiamati e vivere la gioia del vangelo nel mondo di oggi” era il tema del Capitolo. «Sogniamo un istituto di missionari “in uscita” – afferma uno dei numeri degli Atti Capitolari dedicati alla Missione – pellegrini con i più poveri e abbandonati, che evangelizzano e sono evangelizzati attraverso la condivisione personale e comunitaria della gioia e della misericordia, cooperando allo sviluppo di un’umanità riconciliata con Dio, con il creato e con gli altri».
Sono quattro le sfide che il Capitolo rileva come essenziali per la missione dei comboniani nei prossimi anni; queste sfide sono legate agli ambiti e ai protagonisti della missione, alle modalità del servizio missionario e alla vita in comune.
La prima sfida è il necessario cambiamento di prospettiva sulla figura del povero, il quale diventa “compagno di strada” e “maestro”; il povero non è, semplicemente, destinatario passivo dell’azione missionaria, ma anzi, ne è il soggetto attivo e il collaboratore nella costruzione di una nuova umanità.
La seconda è che l’Europa sia ormai ambito di missione e che, pertanto, sia necessario superare quella mentalità che vedeva nel continente europeo un territorio di sola animazione missionaria e promozione vocazionale. Ora l’Europa stessa diventa “periferia” che ha bisogno della luce del Vangelo. La sfida sarà quella di individuare quegli ambiti territoriali o socioculturali che richiedono la presenza missionaria, e di cui i migranti sono attualmente una delle priorità. Ripensare la funzione delle nostre case in Europa, molte delle quali imponenti edifici costruiti in tempi passati, come luoghi di accoglienza per i migranti, fa parte di questo processo di riflessione sul nostro ruolo in Europa.
Terza sfida, la ministerialità, cioè la riqualificazione del lavoro missionario attraverso servizi pastorali specifici. In altri termini, la missione oggi esige un impegno missionario specifico e qualificato, piuttosto che un ministero pastorale generale come nei tempi passati. Ministerialità significa, appunto, riorganizzare le attività tenendo presente l’ambiente e i bisogni della gente. Ambiti in cui i servizi pastorali specifici sono richiesti possono essere, allora, il dialogo interreligioso, la giustizia e la pace, l’educazione, l’impegno per la salute, il mondo dei mass media, l’animazione missionaria, la pastorale urbana, la pastorale fra i popoli indigeni e gli afro-discendenti, i nomadi pastori, i migranti, i rifugiati e i giovani.
Infine, la sfida dell’interculturalità, che esige apertura di cuore e di mente per arricchire un Istituto internazionale e multiculturale di una nuova dimensione, quella interculturale; un Istituto, cioè, dove le varie anime culturali che lo compongono possano accogliersi, dialogare, interagire e arricchirsi a vicenda. Questo non sarà possibile senza l’ascolto empatico dell’altro e delle sue ragioni.
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FRANÇAIS ---
Les Comboniens : de nouveaux défis après 150 ans de mission
L’Institut combonien fut fondé par Daniel Comboni le 1° juin 1867 en tant qu’Institut pour les Missions de la Négritude et transformé en Congrégation religieuse en 1885, quatre ans après la mort de son fondateur. Immédiatement après la I° Guerre mondiale, l’Institut se divisa en deux Instituts distincts, division qui sera guérie en 1979, le nom du nouvel Institut étant Missionnaires Comboniens du Cœur de Jésus (MCCJ). Les défis que l’Institut doit relever au cours de ces prochaines années sont essentiellement au nombre de quatre : considérer l’Europe comme une terre de mission, la nécessité de services pastoraux spécifiques, l’indispensable conversion concernant la compréhension du pauvre en tant que sujet de la mission et le défi de construire un Institut interculturel.
Célébrer le 150ème anniversaire de l’Institut fondé par Saint Daniel Comboni signifie revisiter les objectifs que le Pape François a proposé aux consacrés à l’occasion de l’Année de la Vie consacrée en 2014 : regarder au passé avec gratitude en célébrant dans la mémoire la figure de Saint Daniel, son amour intense pour l’Afrique, et de ceux qui en ont partagé le rêve ; vivre le présent avec passion en appliquant dans l’aujourd’hui cette intuition charismatique qui enflamma le cœur de Saint Comboni ; embrasser l’avenir avec espérance, en continuant et en reprenant « notre chemin avec la confiance dans le Seigneur », malgré les difficultés et les incertitudes.
1. Brève histoire de l’Institut
Le 1er juin 1867, Daniel Comboni fonda l’Institut pour les Missions de la Négritude. Il s’agit d’un Institut de droit diocésain, composé de prêtres et de frères de différentes nationalités sans vœux religieux. Ce qui les unit est un serment d’appartenance et de fidélité à l’Institut et à la mission. La finalité de l’Institut est l’évangélisation de l’Afrique. Saint Daniel Comboni, en 1872, fondera également à Vérone l’Institut des Pieuses Mères de la Négritude. Le grand missionnaire meurt à Khartoum le 10 octobre 1881, à cinquante ans, sans avoir pu donner une fondation stable à ses institutions. La révolte du Mahdi au Soudan, quelques mois après la mort de Saint Comboni, est tragique pour les missions qu’il a fondées : de nombreux prêtres, frères et religieuses sont faits prisonniers, certains fuient en Egypte ; les missions sont détruites. Cela semble marquer la fin de la mission fondée par Saint Comboni. Mais il n’en sera pas ainsi.
Les missionnaires reviennent au Soudan en 1901, après la révolution du Mahdi et, en 1910, ils se poussent en direction de l’Ouganda du nord, y ouvrant des missions. A partir des premières années du XX° siècle, les missions se développent, croissent, se multiplient, y compris en d’autres zones du continent et du monde. Entre temps, en 1885, l’Institut masculin s’était transformé en Congrégation religieuse, prenant un nouveau nom, celui des Fils du Sacré-Cœur de Jésus. La référence au Cœur de Jésus recueille l’un des éléments essentiels du charisme de Saint Daniel Comboni.
Les nationalismes exaspérés des premières années du XX° siècle qui conduiront à la I° Guerre mondiale, auront des effets délétères également sur l’Institut combonien masculin. En 1923, Rome accepte la division en deux Instituts distincts, chacun ayant son nom et ses missions : les Fils du Sacré-Cœur de Jésus (FSCJ), ayant sa maison mère à Vérone, et les Missionnaires Fils du Sacré-Cœur (MFSC), en majorité de langue allemande. Bien que les rapports entre les deux instituts n’aient pas été complètement interrompus, ce sera surtout la redécouverte du fondateur commun et du noyau central de son charisme – l’évangélisation ad gentes pour les plus pauvres et les plus abandonnés – qui portera à leur réunion au sein d’un nouvel Institut dénommé Missionnaires Comboniens du Cœur de Jésus (MCCJ). Le jour de la réunification est hautement symbolique, puisqu’il s’agit du jour de la fête du Sacré-Cœur de l’Année 1979.
Aujourd’hui, les missionnaires Comboniens sont au nombre de 1.540 de 44 nationalités différentes oeuvrant dans 40 pays de 4 continents : l’Afrique, l’Amérique, l’Asie et l’Europe.
2. La mission combonienne
Sous l’élan du Concile Vatican II, les Comboniens non seulement redécouvrent Comboni en tant que figure de fondation et la mission ad gentes comme leur horizon d’engagement, mais ils reconnaissent également deux importants critères de mission : les lieux et manières de l’engagement missionnaires ne sont plus donnés a priori mais il est, en revanche, nécessaire, de se mettre à l’écoute des signes des temps pour identifier les « situations missionnaires » et les méthodes de l’action missionnaire. Par conséquent, la mission n’est pas limitée par d’étroits paramètres géographiques mais doit prendre en compte des critères religieux et socioculturels : au centre de l’action évangélisatrice, se trouvent les peuples et les cultures que la lecture des signes des temps doit identifier.
Dans les années 1970, on parlera justement de « peuples de frontière, c’est-à-dire de tribus, de minorités ethniques ou sociales ou d’autres groupes mineurs qui ne sont pas encore évangélisés et sont demeurés en marge de l’actuelle évolution du monde ». Au cours des années suivantes, seront identifiées des milieux propres à la mission combonienne : en Afrique, les peuples non évangélisés, les nomades, les pygmées, les agglomérats urbains ; sur le continent américain, les afro-américains, les indiens, les habitants des grandes périphéries de la ville ; les peuples pas encore évangélisés en Asie et les immigrés en Europe et en Amérique du nord. Avec l’Afrique cependant, les Comboniens auront toujours un lien essentiel parce que fondé sur leur charisme et leur histoire.
Etre présents en ces « situations missionnaires » où habitent les plus pauvres et les plus abandonnés devient principe de mission et de choix des champs de travail. Les plus pauvres et les plus abandonnés sont ceux qui, outre à être matériellement pauvres, le sont également parce que n’étant pas encore touchés par la joie de l’Evangile et que, dès lors, ils attendent la libération « du péché, de la tristesse, du vide intérieur, de l’isolement » pour reprendre les termes de l’Exhortation apostolique Evangelii gaudium du Pape François. En ces « situations missionnaires » s’appliquent les trois principes du méthode combonien d’évangélisation, héritage du patrimoine spirituel de Saint Comboni lui-même : « sauver l’Afrique par l’Afrique », à savoir travailler avec les pauvres afin qu’ils deviennent les vrais protagonistes de leur histoire et de leur destin, « faire cause commune avec la population », ce qui signifie en partager la vie, les rêves, les luttes et les espoirs, « évangéliser en tant que communauté », en ce sens que la communauté devienne signe et instrument d’évangélisation mais aussi que la mission requiert la collaboration et la synergie de forces pour se réaliser.
3. Les défis
Le Chapitre général de 2015 a voulu relire la situation de l’Institut au travers des défis que l’Exhortation apostolique Evangelii gaudium lançait. « Des disciples missionnaires Comboniens appelés à vivre la joie de l’Evangile dans le monde d’aujourd’hui » était le thème du Chapitre. « Nous rêvons d’un Institut de missionnaires « en sortie » - affirme l’un des paragraphes des Actes capitulaires dédiés à la Mission –pèlerins avec les plus pauvres et les plus abandonnés, qui évangélisent et sont évangélisés au travers du partage personnel et communautaire de la joie et de la miséricorde, en coopérant au développement d’une humanité réconciliée avec Dieu, la Création et les autres ».
Quatre sont les défis que le Chapitre relève comme essentiels pour la mission des Comboniens au cours de ces prochaines années ; ces défis sont liés aux environnements et aux protagonistes de la mission, aux modalités du service missionnaire et à la vie en commun.
Le premier défi concerne le nécessaire changement de perspective concernant la figure du pauvre, qui devient « compagnon de route » et « maître » ; le pauvre n’est pas simplement le destinataire passif de l’action missionnaire mais en est en revanche le sujet actif, collaborateur dans la construction d’une nouvelle humanité.
Le deuxième est que l’Europe constitue désormais une terre de mission et que, dès lors, il est nécessaire de surmonter la mentalité qui voyait le continent européen comme un territoire de simple animation missionnaire et de promotion vocationnelle. Désormais, l’Europe elle-même devient « périphérie » qui a besoin de la lumière de l’Evangile. Le défi consistera à identifier les milieux territoriaux ou socioculturels qui requièrent la présence missionnaire et dont les migrants constituent actuellement l’une des priorités. Repenser la fonction de nos maisons en Europe, nombre desquelles constituent des édifices imposants construits par le passé en tant que lieux d’accueil pour les migrants, fait partie de ce processus de réflexion concernant notre rôle en Europe.
Le troisième défi est celui de la ministérialité, c’est-à-dire de la requalification de l’action missionnaire au travers de services pastoraux spécifiques. En d’autres termes, la mission exige aujourd’hui un engagement missionnaire spécifique et qualifié, plutôt qu’un ministère pastoral général comme par le passé. La ministérialité signifie justement réorganiser les activités en tenant compte du milieu et des besoins des personnes. Des milieux dans lesquels les services pastoraux spécifiques sont demandés peuvent être, alors, le dialogue interreligieux, la justice et la paix, l’éducation, l’engagement en faveur de la santé, le monde des moyens de communication de masse, l’animation missionnaire, la pastorale urbaine, la pastorale des peuples indigènes et des descendants des populations africaines déplacées, les bergers nomades, les migrants, les réfugiés et les jeunes.
Enfin, le quatrième est celui de l’interculturel, qui exige une ouverture du cœur et de l’esprit pour enrichir un Institut international et multiculturel d’une nouvelle dimension interculturelle, c’est-à-dire un Institut dans lequel les différentes âmes culturelles qui le composent peuvent s’accueillir, dialoguer, interagir et s’enrichir réciproquement. Ceci ne sera possible qu’avec l’écoute empathique de l’autre et de ses motivations.