La trama e la luce. L’arte di frate Sidival Fila
di Gianni Valente *
L'artista francescano realizza le sue opere recuperando materiali poveri o obsoleti: carta, legno, vecchie tele e vecchie stoffe – lini, canape, preziosi broccati, ossidati e segnati dal tempo. E poi lastre di metallo o di polistirolo, metalli consunti, gesso. Chiodi da calzolaio. Nei suoi lavori, l'ordito “grezzo” della materia ridiviene il luogo dello svelarsi della gratuità delle cose. E con un azzardo, si può immaginare che la sua produzione artistica suggerisca qualcosa di intimo e prezioso anche riguardo alla condizione della fede e della Chiesa nel tempo presente
L'istallazione delle opere di Sidival Fila a Colonia era stata messa in agenda per la primavera del 2018. Poi, un cambio di programma ha fatto anticipare i tempi. Così le sue produzioni voluminose già da maggio suscitano sorpresa e grata ammirazione tra i visitatori della Kunst-Station Sankt Peter Kirche, la chiesa tardogotica di san Pietro, centro di arte contemporanea che dal 1987 ospita artisti di fama internazionale come Francis Bacon, Anish Kapoor, Olafur Eliasson e Jannis Kounellis. Il finissage della mostra di fra' Sidival è annunciato per il prossimo 9 luglio.
Nei percorsi fluidi e imprevedibili dell’arte informale, il nome e le opere “materiche” di Sidival Fila richiamano interesse crescente di specialisti e dilettanti appassionati o incuriositi, chiamati prima o poi a fare i conti con due tratti connotativi legati alla persona dell’artista: tutti sanno che il brasiliano è un figlio spirituale di San Francesco, sacerdote della provincia italiana dell’Ordine dei Frati Minori; e tanti scoprono che la sua vocazione francescana gli ha fatto cadere addosso anche la fortuna di poter lavorare la sua arte in un’ampia sala inondata di luce, in sommità alla torre del convento francescano di San Bonaventura, sopra il Colle Palatino. Mentre tesse trame di filo su vecchie stoffe e stende strati di colla e colore sulle sue tele, lo sguardo di padre Sidival, quando si sposta per un attimo dal suo focus, può posarsi di volta in volta sul Colosseo o sui Fori romani, sui pini del Celio o sul campanile di Santa Maria Maggiore. Lì dove Roma brilla di luce propria, spudorata e inarrivabile. Una bellezza alla quale «non ci si abitua», confessa padre Sidival.
Dal Brasile alla Città Eterna
Sidival Fila è nato in Brasile, nello Stato del Paranà, nel 1962. Già da adolescente si appassiona alle arti plastiche, unendo l’interesse per le opere medievali e rinascimentali all’attrazione per l’espressionismo e il cubismo. Si trasferisce in Italia nel 1985, seguendo il desiderio di delineare la propria identità artistica. Dopo esser passato per varie esperienze di lavoro, arriva l’imprevisto della vocazione alla vita religiosa: entra nell’Ordine dei frati minori, viene ordinato sacerdote nel 1999. Per un lungo tempo, mette da parte ogni intenzione artistica e la sua vita si intreccia coi luoghi e con le storie dove viene portato dalla sua passione dominante: cappellano al Policlinico Gemelli, volontario al carcere di Rebibbia, maestro dei frati novizi a Frascati. Lì, quasi per caso, riprende i suoi arnesi artigianali d’artista “principiante”. Non per inseguire nostalgie di passioni giovanili, ma per l’urgenza concreta, molto “francescana”, di restaurare alcuni vecchi crocifissi ritrovati in convento. E da lì, proprio da lì, riparte tutto.
Ordìto e luce, il “Cantico” della materia
L’arte di padre Sidival comincia a “far notizia” nel 2008. Lui stesso denuncia i suoi “debiti” artistici verso l’Action Painting di Jackson Pollock e il movimento spazialista. Ma trova piste e linguaggi personalizzati, in seno al grande cratere – sempre in ebollizione - dell’arte informale “materica”.
Sidival realizza le sue opere recuperando materiali poveri o obsoleti: carta, legno, vecchie tele e vecchie stoffe – lini, canape, preziosi broccati, ossidati e segnati dal tempo. E poi lastre di metallo o di polistirolo, metalli consunti, gesso. Chiodi da calzolaio. Ma anche stuzzicadenti e lische di pesce. Sulle stoffe e sugli altri materiali fissa strati di colore, monocromi o cangianti, o vi intesse sopra reti di filo dipinto a mano. Utilizza per la sua ricerca artistica le operazioni più abituali di alcuni mestieri manuali: Vernicia, tinge, cuce e scuce, spennella. Cerca l’equilibrio tessendo intrecci di filo sopra le tele. Così, molte sue opere recenti mostrano come tratto connotativo la tridimensionalità e l’ordito, la trama di fibre che con la luce si trasfigura in una via d’ingresso nelle pieghe della materia. Con i fili che «tengono» la materia, la sospendono, le impediscono di crollare o di sciogliersi. In altre opere, proprio i fili tessuti sopra le tele monocrome, giocano ad apparire e scomparire e le trasformano, grazie alla luce, in materia pulsante e viva, per chi le guarda muovendosi davanti a esse.
Le procedure artigianali dell’arte di Sidival – di volta in volta fabbro ferraio, tessitore, imbianchino, scalpellino, falegname – si servono dei gesti ordinari, pazienti e ripetitivi di uomini e donne che lungo secoli – come suggerisce il poeta Charles Péguy – impagliavano sedie con la stessa dedizione con cui tiravano in piedi cattedrali. La sua vocazione per l’arte materica si raccorda anche con la tensione verso la concretezza del mondo e la materialità stessa della creazione che connota la spiritualità francescana. Il suo affidarsi agli intrecci di filo per cogliere qualcosa del mistero che vibra anche nella materia è lo stesso che gli ha fatto avvertire una corrispondenza vocazionale con il saio del poverello d’Assisi, con il suo ordito grezzo.
Cosa c’entra San Francesco con l’Action Painting
Frate Sidival non sfoggia sofisticate estetiche per armonizzare le sue opere “materiche” col suo saio francescano. Tanto meno perde tempo a appiccicare nomi o etichette cristianeggianti alle sue tele e ai suoi broccati ricuciti. Ma lui rimane un figlio di San Francesco anche mentre cuce disteso lungo il suo tavolo di lavoro, nella sua officina di aghi e secchi, ferri e scampoli di tessuto, incastonata nel cielo sopra Roma.
Fin dall’inizio della sua avventura artistica, Sidival riconosce come un dato acquisito il fatto di trovarsi dentro la condizione in cui l’arte ha perso ogni fiducia nella propria forza raffigurativa. Non “vuole” essere moderno. Non si sforza di essere moderno. Semplicemente, lo è. E dà per acquisita la disarticolazione dei linguaggi figurativi realizzata dalle correnti dell’arte informale dopo la seconda guerra mondiale, quando quell’abisso di male apertosi nel cuore dell’Europa ha tolto agli artisti ogni certezza e ogni interesse nella possibilità di riprodurre il reale.
In tale condizione data, e seguendo anche le orme del suo maestro San Francesco, Sidival Fila riconosce e avverte l’incanto della materia, che può essere resa viva e trasfigurata nel suo ordito non dall’intenzionalità di un progetto umano, ma solo dalla luce. Cioè da un altro dato ricevuto, gratuito, non producibile.
La “trama grezza” della materia, nella condizione percettiva elementare comune, ridiviene il luogo dello svelarsi della gratuità delle cose, del dato creato. E rende possibile anche la percezione dell’altro dato gratuito, che la trasfigura, quello della luce. La bruta materialità è il luogo dove noi umani possiamo percepire il manifestarsi della luce. E gratitudine e stupore davanti a questo avvenimento si svelano come le cifre ultime dell’opera di frate Sidival.
Con un azzardo, anch’esso non dovuto, si può immaginare che l’arte di frà Sidival Fila, con le sue stoffe antiche e i suoi intrecci di filo, offra un suggerimento intimo e prezioso anche riguardo alla condizione della fede e della Chiesa nel tempo presente. Nella disarticolazione di ogni memoria e nel venir meno di ogni suggestione culturale, rimane solo la nuda realtà creaturale a poter recepire la luce dell’avvenimento cristiano, se e quando ne viene raggiunta. Nello spappolamento spirituale e esistenziale che avanza come il deserto, il cristianesimo non si riafferma come pretesa di possedere persone o cose. Il cristianesimo può solo riaccadere come miracolo, e essere percepito per grazia, nell’ordito grezzo, nella bruta materialità delle nostre vite concrete. Era grezzo anche il tessuto che vestiva il poverello. E erano grezzi anche i cuori e i pezzi di umanità che lui incontrava per le strade del suo tempo, nonostante il cristianesimo fosse iniziato già da più di mille anni.
* nota sull'autore
Redattore dell'Agenzia Fides