La guerra civile in Sud Sudan, scoppiata nel dicembre 2013, originata da uno scontro politico al vertice dell’SPLA (Sudan People's Liberation Movement), ha messo in crisi gli equilibri tra le oltre 60 etnie del Paese. Si rischia una guerra etnica che potrebbe coinvolgere i Paesi vicini.
FRANÇAIS
“Il Sud Sudan è sull’orlo di una guerra civile etnica totale che potrebbe destabilizzare l’intera regione” ha avvertito il 14 dicembre 2016 Yasmin Sooka, che guida la Commissione ONU per i Diritti Umani in Sudan, nel suo rapporto al Consiglio delle Nazioni Unite per Diritti Umani.
“Si rischia un genocidio come quello accaduto in Rwanda” ha rincarato Sooka sollecitando il dispiegamento urgente di una forza regionale di 4.000 militari “per proteggere i civili sull’intero Sud Sudan”. Un compito immane per un Paese che ha un’estensione di più di 619.000 Kmq, con 11 milioni di abitanti divisi in circa 60 gruppi etnici (sono 80 se invece si usa il criterio della differenziazione linguistica; i Dinka ad esempio sono divisi a loro volta in sei gruppi dialettali diversi).
La guerra civile nel più giovane Stato africano (il Sud Sudan è indipendente dal luglio 2011) risale al 15 dicembre 2013, quando dopo un fallito golpe, scoppiano scontri tra i militari rimasti fedeli al Presidente Salva Kiir e quelli che si schierano con l’ex Vice Presidente, Riek Machar, accusato di essere l’ispiratore del tentativo di colpo di Stato.
Kiir riesce a riprendere il controllo della capitale Juba e il conflitto si sposta così negli Stati di Jonglei, Unity, Upper Nile e Central Equatoria. La guerra assume subito una dimensione etnica, perché i militari si dividono tra Dinka (fedeli al Presidente Kiir appartenente a questa etnia) e Nuer (fedeli a Machar, un Nuer). Ben presto le divisioni etniche si estendono dai militari al resto della società, anche se i due protagonisti dello scontro, di fronte alla comunità internazionale, hanno dato maggiore peso alla dimensione politica, nascondendo il fattore etnico, pur utilizzandolo per mobilitare i loro sostenitori sul piano interno.
Dopo alterne vicende, si giunge all’accordo di pace dell’agosto 2015 che prevede, tra l’altro, il mantenimento della Presidenza nelle mani di Salva Kiir e il conferimento del ruolo di Primo Vice Presidente a Riek Machar. Questi si installa a Juba nella primavera del 2016, ma è costretto a riparare all’estero quando l’8 luglio scoppiano violenti combattimenti tra le truppe a lui fedeli e l’esercito governativo. Al termine dei combattimenti, il 12 luglio, si contavano centinaia di morti tra i militari di entrambe le parti e soprattutto tra i civili.
Un recente rapporto dell’ONU ha denunciato le violenze a sfondo etnico commesse a Juba nel corso degli scontri di luglio. In particolare i militari governativi sceglievano le loro vittime sottoponendole ad un test linguistico per scoprire la tribù di provenienza.
Gli eventi di luglio hanno precipitato il Sud Sudan nella guerra civile. A differenza del periodo 2013-2015 le violenze a sfondo etnico più gravi si sono avute, oltre che nello Stato di Jonglei, nell’area di Yei, che fino a quel momento era stata relativamente risparmiata. La capitale dello Stato d’Equatoria e i suoi dintorni è stata colpita da un’ondata di omicidi e massacri attribuiti a gruppi armati misti militari-civili, che colpivano presunti fiancheggiatori di Machar.
La responsabilità dell’attacco contro le forze di Machar a Juba non è stata stabilita con certezza. Si è pure ipotizzato che i “duri” del campo presidenziale abbiano forzato la mano a Kiir. Questi aveva in precedenza effettuato una mossa unilaterale che aveva provocato forti tensioni, ridisegnando a suo favore la geografia politica del Paese, con il frazionamento dei 10 Stati nei quali era suddiviso il Sud Sudan in altri 28, più piccoli. Un decreto del gennaio 2017 ha esteso a 32 gli Stati della Federazione, gettando nuova benzina sul fuoco.
La situazione rimane comunque precaria. A dicembre il Presidente Kiir ha mobilitato oltre 4.000 miliziani Dinka per riprendere il controllo delle aree intorno alla capitale Juba. I miliziani hanno però commesso attacchi contro persone appartenenti a gruppi etnici “equatoriani” ovvero provenienti dallo Stato di Equatoria. Oltre ai Nuer, sono stati presi di mira gli appartenenti ad etnie, considerate, a torto o a ragione, a loro affiliate. Le violenze commesse dai miliziani Dinka hanno provocato oltre 200 morti e la fuga di 120.000 persone da Juba e dall’area circostante. Sfollati che si aggiungono ai circa 2 milioni e 200.000 (su 13 milioni di abitanti) tra sfollati interni e rifugiati negli Stati limitrofi. Una catastrofe umanitaria che aggrava i risentimenti in una popolazione più che mai disunita.
Le oltre 60 etnie locali hanno dato origine ad una quarantina circa di milizie tribali che si disputano il controllo di terre e fonti d’acqua seguendo l’atavica divisione tra pastori e agricoltori. Sulle dispute fondiarie si è inserito lo scontro politico tra Kiir e Machar. I diversi gruppi armati si alleano quindi, in base alle convenienze del momento, con l’uno o con l’altro schieramento capeggiato dai due leader nazionali: l’SPLM-IG (Sudan People's Liberation Movement In Government) e l’SPLM-IO (Sudan People's Liberation Movement In Opposition).
Le linee di divisione sono estremamente labili al punto che un’etnia si allea con uno schieramento in uno Stato e con il suo rivale in un altro. Lo stesso campo di Macher è diviso perché esiste una milizia Nuer che non lo riconosce come leader dell’opposizione, anche se combatte contro le forze del Presidente Kiir.
La frammentazione del quadro politico e militare, in una dimensione sempre più a base locale e tribale, ha trasformato il conflitto civile sud-sudanese da uno scontro tra due eserciti in un moltiplicarsi di attacchi contro i civili dell’etnia “rivale”. Le atrocità commesse, compresi stupri e massacri, sono innumerevoli.
Le Chiese cristiane hanno promosso diverse iniziative per riconciliare gli animi e disinnescare il conflitto a sfondo etnico; dal progetto di riconciliazione e pacificazione nello Stato di Jonglei, avviato dal South Sudan Council of Churches (SSCC), al Centro per la Pace “Buon Pastore”, creato dall’Arcidiocesi di Juba, fino ad un seminario sul tribalismo tenutosi a Yei, al quale hanno partecipato giovani di tutte le etnie del Paese.
La Missione ONU in Sud Sudan (UNIMISS) è stata rafforzata per cercare di separare i contendenti ed evitare un inasprimento del conflitto che potrebbe sfociare in un genocidio. I Caschi Blu devono però controllare un territorio molto vasto e rischiano di divenire preda a loro volta di agguati condotti dalle diverse milizie e gruppi armati presenti.
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Le Soudan du Sud au bord du conflit ethnique et d’un potentiel génocide
« Le Soudan du Sud est sur le bord d’une guerre civile ethnique totale qui pourrait déstabiliser l’ensemble de la région » a averti, le 14 décembre 2016, Yasmin Sooka, Président de la Commission de l’ONU pour les droits fondamentaux au Soudan, dans son rapport au Conseil des Nations unies pour les droits fondamentaux.
« Il existe un risque de génocide comme celui qui a eu lieu au Rwanda » a renchéri Yasmin Sooka, sollicitant le déploiement urgent d’une force régionale de 4.000 militaires « pour protéger les civils de l’ensemble du Soudan du Sud », un mission démesurée pour un pays qui s’étend sur plus de 619.000 Km2 et dont les 13 millions d’habitants sont répartis entre quelques 60 groupes ethniques – 80 même si l’ont prend en considération le critère de la différenciation linguistique, les Dinkas par exemple étant divisés en leur sein en six groupes dialectaux différents.
La guerre civile dans le plus jeune des Etats africains – le Soudan du Sud étant devenu indépendant en juillet 2011 – remonte au 15 décembre 2013, lorsque, après un coup d’Etat manqué, des affrontements ont éclaté entre les militaires demeurés fidèles au Président Salva Kiir et ceux qui s’étaient rangés aux côtés de l’ancien Vice-président, Riek Machar, accusé d’être l’inspirateur de la tentative de coup d’Etat.
Salva Kiir réussit à reprendre le contrôle de la capitale, Juba, et le conflit se déplaça donc dans les Etats de Jonglei, d’Unité, du Haut Nil et d’Equatoria centrale. La guerre prit immédiatement une dimension ethnique en ce que les militaires se divisèrent entre les Dinkas – fidèles au Président Kiir, appartenant lui aussi à cette ethnie – et les Nuers – fidèles à R. Machar, lui-même d’ethnie nuer. Bientôt, les divisions ethniques s’étendirent des militaires au reste de la société, même si les deux protagonistes de l’affrontement, face à la communauté internationale, ont accordé plus de poids à la dimension politique, cachant le facteur ethnique bien qu’en y recourant pour mobiliser leurs partisans au plan interne.
Après bien des vicissitudes, un accord de paix fut signé en août 2015. Il prévoyait entre autre, le maintien à la Présidence de Salva Kiir et la réinstallation de Riek Machar à un poste de Premier Vice-président. Ce dernier s’installa à Juba au printemps 2016 mais fut contraint à se réfugier à l’étranger après que le 8 juillet des combats violents eurent éclaté entre les troupes qui lui étaient fidèles et l’armée régulière. Au terme des combats, le 12 juillet, le bilan faisait état de centaines de morts parmi les militaires des deux parties et surtout parmi les civils.
Un récent rapport de l’ONU a dénoncé les violences de matrice ethnique commises à Juba au cours des affrontements du mois de juillet. En particulier, les militaires progouvernementaux choisissaient leurs victimes en les soumettant à un test linguistique pour découvrir leur tribu d’origine.
Les événements de juillet 2016 ont fait précipiter le Soudan du Sud dans la guerre civile. A la différence de la période 2013-2015, les violences à caractère ethnique les plus graves ont eu lieu, outre l’Etat de Jonglei, dans la zone de Yei, qui, jusqu’alors, avait été épargnée. Par ailleurs, la capitale de l’Etat d’Equatoria et ses alentours ont été frappés par une vague d’homicides et de massacres attribuée à des groupes armés mixtes comprenant des militaires et des civils, qui frappaient de présumés partisans de R. Machar.
La responsabilité de l’attaque contre les forces de R. Machar à Juba n’a pas été établie avec certitude. Il a même été avancé l’hypothèse selon laquelle les « durs » du camp présidentiel auraient forcé la main à Salva Kiir. Celui-ci s’était précédemment livré à une initiative unilatérale qui avait provoqué de fortes tensions, redessinant en sa faveur la géographie politique du pays, en fractionnant les 10 Etats du Soudan du Sud en 28, plus petits. Un décret de janvier 2017 a étendu à 32 le nombre des Etats de la Fédération, jetant de nouveau de l’huile sur le feu.
La situation demeure dans tous les cas précaire. En décembre, le Président Kiir a mobilisé plus de 4.000 miliciens Dinkas pour reprendre le contrôle des abords de la capitale, Juba. Les miliciens en question ont cependant perpétré des attaques contre des personnes appartenant à des groupes ethniques « équatoriens » c’est-à-dire provenant de l’Etat d’Equatoria. Outre les Nuers, ont ainsi été pris pour cible les membres d’ethnies considérées, à tort ou à raison, comme leur étant affiliés. Les violences en question ont provoqué plus de 200 morts et la fuite de 120.000 de Juba et des zones environnantes. Ces évacués viennent s’ajouter aux quelques 2,2 millions d’autres – sur une population totale de 13 millions d’habitants – qui étaient déjà précédemment évacués ou qui avaient trouvé refuge dans les Etats limitrophes : une catastrophe humanitaire qui aggrave les ressentiments au sein d’une population plus que jamais désunie.
Les plus de 60 ethnies locales ont été à l’origine d’une quarantaine de milices tribales qui se disputent le contrôle de terrains et de sources d’eau suivant la division atavique entre bergers et agriculteurs. L’affrontement politique entre S. Kiir et R. Machar est venu se greffer sur les disputes foncières. Les différents groupes armés s’allient par suite sur la base des opportunités du moment avec l’un ou l’autre des deux camps répondant aux deux responsables nationaux : le SPLM-IG (Sudan People's Liberation Movement In Government) et le SPLM-IO (Sudan People's Liberation Movement In Opposition).
Les lignes de partition sont extrêmement floues, au point qu’une ethnie peut s’allier avec un parti dans un Etat et avec son rival dans un autre. Le camp de R. Machar lui-même est divisé, dans le sens où il existe une milice Nuer qui ne le reconnaît pas comme responsable de l’opposition même si elle combat les forces du Président Kiir.
La fragmentation du cadre politique et militaire, sur la base d’une dimension toujours plus locale et tribale, a transformé le conflit civil sud soudanais, le faisant passer du stade d’un affrontement entre deux armées à celui d’une multiplication d’attaques à l’encontre des civils de l’ethnie rivale. Les atrocités commises, y compris des viols et des massacres, sont innombrables.
Les églises chrétiennes ont promu différentes initiatives pour réconcilier les esprits et désamorcer le conflit à caractère ethnique, allant du projet de réconciliation et de pacification lancé, dans l’Etat de Jonglei, par le South Sudan Council of Churches (SSCC), au Centre pour la paix Bon Pasteur, créé par l’Archidiocèse de Juba, en passant par un séminaire sur le tribalisme tenu à Yei et auquel ont participé des jeunes de toutes les ethnies du pays.
La Mission de l’ONU au Soudan du Sud (UNIMISS) a été renforcée afin de chercher à séparer les adversaires et d’éviter un durcissement du conflit qui pourrait déboucher sur un génocide. Les casques bleus doivent cependant contrôler un territoire particulièrement vaste et risquent de devenir à leur tour la proie d’embuscades conduites par les différentes milices et groupes armés présents.