Tra sogno, impresa e annuncio del Vangelo: i migranti filippini nel mondo
di Paolo Affatato *
Il fenomeno, tornato d'attualità con la Coppa del mondo di calcio in Qatar, presenta una realtà complessa e sfaccettata, fatta di sacrificio e di piena integrazione
E' un fenomeno letteralmente esploso negli anni '70 del secolo scorso, e oggi è prepotentemente d'attualità anche grazie alla campagne mediatiche – e alle polemiche – scatenatesi in occasione della Coppa del mondo di calcio in Qatar: le Filippine, arcipelago di 7.000 isole popolate da diversi gruppi etno-linguistici, sono piattaforma di partenza per una migrazione massiccia, che offre lavoratori, qualificati e poco qualificati, alle regioni più sviluppate del mondo. Il fenomeno registra un trend in perpetua crescita e inevitabilmente è stato chiamato in causa nelle campagne di difesa dei diritti umani che hanno segnalato la condizione di sfruttamento degli operai nei cantieri edili qatarioti.
Un'analisi a tutto tondo del fenomeno non può che registrare che negli ultimi 50 anni si è gradualmente andata affermando nelle Filippine una “cultura della migrazione”, con un numero sempre maggiore di filippini desiderosi di lavorare all'estero, nonostante i rischi e le vulnerabilità che si possono incontrare. Già nel 2002 un sondaggio a livello nazionale condotto dall’istituto “Pulse Asia” poteva rilevare che un filippino su cinque esprimeva il desiderio di migrare. In indagini del medesimo istituto più recenti quel numero cresce fino al 30% e perfino al 50% degli intervistati.
Le caratteristiche di una mentalità che è divenuta un “tratto tipico” della cultura nazionale, le propone con acume narrativo il film “La Visa Loca”, commedia drammatica filippina del 2005 diretta da Mark Meily, raccontando le paradossali vicende di un tassista di Manila che sogna di andare negli Stati Uniti. La pellicola fotografa perfettamente un processo su cui, negli anni, si è addensata una miriade di luoghi comuni: la febbrile ricerca di un visto per gli Usa, il biglietto aereo percepito come un traguardo per la "terra promessa", il sogno di una "vita da nababbi" nel paese dello zio Sam. Altre "terre promesse" sono le nazioni ricche in Medio Oriente, Asia, Europa, Oceania. La realtà risulta, come sempre più complessa e sfaccettata.
La diaspora dei lavoratori filippini nel mondo tocca oggi quasi i 10 milioni di persone, circa il 10% della popolazione complessiva (100 milioni di cittadini filippini). I migranti che lavorano all'estero inviano massicce rimesse (33,5 miliardi di dollari nel 2019) che contribuiscono in maniera cruciale all'economia e al sostegno di migliaia di famiglie. Eppure nell'idea popolare e diffusa a livello internazionale, il migrante filippino è un "martire sofferente", che sopporta a costo di indicibili sacrifici la sfide di vivere in un ambiente straniero, vulnerabile allo sfruttamento e agli abusi, sperimentando solitudine e depressione a causa della separazione dalla famiglia.
Molti ricordano la definizione della presidente filippina Corazon Aquino che nel 1988 definì i lavoratori filippini d'oltreoceano (Overseas Filipino workers) "bagong bayani" (“nuovi eroi”), ponendo l'accento sul loro sacrificio a beneficio di una intera comunità nazionale. Va notato che – sulla scorta di un processo che avviato fin dai primi del ‘900, per il rapporto coloniale tra USA e Filippine – la spinta “ufficiale” a emigrare è curata, promossa e sponsorizzata dal governo di Manila fin dagli anni ’60 (con l'Immigration and Nationality Act del 1965 e, successivamente, con il Labor Code del 1974 ) e ha trovato continuità politica con governi di ogni colore e provenienza, dal generale-dittatore Ferdinando Marcos fino ai giorni nostri, a volte stigmatizzati per le politiche neoliberiste che favoriscono l'esodo dei migranti. Esistono sul territorio nazionale oltre 1.000 agenzie ufficiali di reclutamento, con licenza governativa (senza contare quelle prive di licenza), che mettono in contatto i lavoratori con i datori di lavoro stranieri, mentre nel governo di Manila la Overseas Workers Welfare Administration fornisce sostegno e assistenza ai migranti e alle loro famiglie e la Commission on Filipinos Overseas offre programmi e servizi agli emigranti permanenti.
I motivi del poderoso impegno istituzionale sono ben comprensibili: oltre ad alleviare la disoccupazione, i filippini che scelgono di lavorare all'estero inviano a casa rimesse che sono diventate un pilastro importante dell'economia nazionale. Nel 2004, secondo il “Bangko Sentral ng Pilipinas”, le rimesse inviate tramite canali formali ammontavano a 8,5 miliardi di dollari. Nel 2005, le rimesse hanno superato i 10 miliardi di dollari l’anno e, in un trend semp rein crescita, oggi rappresentano il 9% del Prodotto Interno Lordo nazionale.
Le rappresentazioni di eroismo, allora, presenti nel cinema e nella cultura, continuano a perpetrare uno stereotipo. Un punto di vista diverso appare dagli scritti degli stessi migranti, come si evince dal testo “The Filipino Migration Experience” (NY, Cornell University Press, 2021) della storica filippina Mina Roces (docente di storia all'Università del Michigan, negli Stati Uniti) che offre una nuova e originale prospettiva per comprendere l'esperienza dei migranti. Essi sono oggi consumatori e investitori, imprenditori, attivisti, studiosi e filantropi. E, come membri attivi delle società dove scelgono di trasferirsi, sono anche preziosi testimoni della fede in Cristo. Dopo pochi anni trascorsi dei paesi di destinazione, sono anche capaci di mutare la mentalità assistenzialistica della loro famiglia di origine, rompendo tabù culturali e criticandola per l'inesorabile ed esclusiva richiesta di rimesse.
I migranti filippini, nota il testo di Roces, nelle società occidentali spesso riescono ad affrancarsi dai lavori più umili, ad integrarsi ed acquisire un nuovo status di "classe media", immergendosi nel panorama imprenditoriale e perfino generando profitti. "I migranti - nota la studiosa - sono anche in grado di modificare i paesi di accoglienza in cui vivono e lavorano", a livello sociale, culturale e religioso.
In Australia, sindacalisti filippini sono riusciti negli anni '90 a modificare la legislazione relativa all'immigrazione e alla violenza domestica, dimostrando di poter incidere sulle politiche nazionali, pur essendo un gruppo etnico minoritario o ritenuto marginale.
I residenti filippini negli Stati Uniti - riferisce ancora il testo - hanno partecipato a molti progetti filantropici, come il “Philippine International Aid- The Children's Fund” con sede a San Francisco. Con un budget di oltre 90mila dollari l'anno, per 30 anni (dal 1986 al 2013) il Fondo ha fornito istruzione e sostegno materiale ai bambini svantaggiati nelle Filippine, beneficiando circa 300.000 famiglie. Ancora nel campo della sanità, la “Philippine Australian Medical Association” (PAMA dagli anni '90 ha curato circa 1.500 pazienti ogni anno, filippini e non.
I migranti sono diventati anche operatori culturali e studiosi: negli USA hanno scritto le proprie memorie come contributo culturale per documentare i contributi che i filippini hanno dato agli Stati Uniti in oltre 100 anni di migrazione. La “Filipino American National Historical Society” (FANHS) nel 2014 ha anche inaugurato un proprio museo a Stockton, in California. Queste storie smantellano gli stereotipi negativi e offrono una nuova narrazione fatta di volontà, speranza, risultati positivi.
Anche in Europa vi sono casi paradigmatici: una migrante filippina giunta in Francia nel 1994 è passata alla storia come la prima filippina a trascinare il suo datore di lavoro in tribunale per "schiavitù moderna" e ha vinto la causa intentata. E' divenuta sindacalista nella “Confédération française démocratique du travail”, dove ha continuato l'opera di tutela dei diritti di tutti i lavoratori stranieri in Francia.
Sul piano più strettamente religioso non si può dimenticare che tali migranti portano con sè un patrimonio di fede, devozione, spiritualità che può rivelarsi estremamente prezioso per le comunità cattoliche nei paesi di destinazione: essi possono essere "veicoli e messaggeri inaspettati della grazia di Dio", un "canale prezioso, attraverso cui Dio vuole arricchire e rivitalizzare le nostre comunità", come rileva il documento “Orientamenti sulla Pastorale Migratoria Interculturale”, della Sezione "Migranti e Rifugiati" nel Dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale (24 marzo 2022), che auspica una "pastorale d’insieme", che valorizzi l'appartenenza a culture e popoli diversi, prevedendo "parrocchie interculturali e interetniche o interrituali".
In Giappone, ad esempio, dove accanto a 450mila fedeli nipponici ve ne solo altrettanti provenienti dall'estero, soprattutto filippini e vietnamiti, essi "sono missionari mandati da Dio, un grandissimo aiuto all'evangelizzazione", ha scritto la Chiesa di Niigata. Un istituto religioso come quello fondato dal Beato Giovanni Battista Scalabrini, fin dall’inizio vedeva l’emigrazione come “strumento provvidenziale nel piano di Dio per la diffusione del Vangelo". I migranti sono "comunità che evangelizzano”, ha scritto p. Sérgio O. Geremia, ex Superiore generale dei Missionari di San Carlo (Scalabriniani). I milioni di cristiani che migrano dall’Est europeo, dall’America Latina, dall'Asia e dall'Africa verso l' Europa, gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia sono una ricchezza, in termini di fede, speranza e carità, per le Chiese di antica tradizione.
In tale cornice, il Cardinale filippino Luis Antonio G. Tagle, intervenendo nell’ottobre 2021 al Seminario di studio organizzato dalle Pontificie Opere Missionarie (POM) per celebrare il 500° anniversario dell'arrivo del Vangelo nelle Filippine (1521-2021), ha spiegato: "Abbiamo ricevuto il dono della fede 500 anni fa, ma non solo allora: lo riceviamo dal Signore ancora oggi. Lo abbiamo ricevuto e vissuto 'da filippini', e lo doniamo al mondo da filippini, nel nostro modo peculiare. In un arcipelago di oltre 7.500 isole, la fede si è diffusa tra un'isola e l'altra, in uno scambio fecondo. Oggi tanti fedeli filippini, anche se non si considerano missionari o non hanno studiato missiologia, sono missionari in famiglia, sul lavoro, nella società; trasmettono la fede con la vita. Vi sono 10 milioni di lavoratori filippini sparsi in tutto il mondo. Questo movimento migratorio è diventato un movimento missionario. Siamo tutti missionari condividendo il dono della fede". La diaspora dei fedeli, allora, diventa un paradigma per la missione evangelizzatrice della Chiesa.
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Agenzia Fides