Il Pastore che cerca pace e riconciliazione in mezzo al conflitto
di Luca Attanasio
In Camerun, Andrew Nkea Fuanya, Arcivescovo cattolico nelle comunità di Bamenda, capoluogo delle delle regioni anglofone del Camerun, confida la responsabilità di essere Pastore di riconciliazione in una terra sprofondata nel conflitto
Bamenda (Agenzia Fides) - “Non è un facile essere Arcivescovo di Bamenda in questo tempo di conflitto. La gente guarda alla Chiesa con molte aspettative ma la crisi che stiamo vivendo da quando sono cominciati gli scontri tra esercito e indipendentisti armati (ultimo trimestre del 2017, ndr) è molto pesante, specialmente nella mia arcidiocesi che si trova nel centro esatto del conflitto. Le due fazioni guardano all’Arcivescovo con rispetto e per avere un orientamento ma non è semplice: noi siamo con il popolo che soffre e prendiamo posizione contro gli eccidi, le violenze, i rapimenti da qualsiasi parte avvengano; per questo spesso ci accusano di essere schierati con l’una o l’altra forza. Così, la ricerca della soluzione si complica”. In un momento molto difficile per le popolazioni delle regioni anglofone del Camerun e Mons. Andrew Nkea Fuanya, Arcivescovo di Bamenda, il capoluogo, confida in un colloquio con l’Agenzia Fides tutta la responsabilità di essere pastore di pace e riconciliazione in una terra sprofondata in una crisi dai contorni drammatici.
“Qui siamo in aperto conflitto ormai da cinque anni – rimarca – e abbiamo raggiunto un numero enorme di sfollati (800mila secondo le stime più accreditate, ndr) ma ci spaventa anche il numero di morti, feriti, rapiti. Nell’ultimo periodo ci sono stati alcuni segnali positivi: molti più ragazzi possono andare a scuola e almeno il 60% degli istituti ora funzionano (i separatisti hanno imposto la chiusura totale delle scuole governative in protesta contro Yaoundé, in alcune aree le scuole sono chiuse dall’inizio della crisi, ndr), il lavoro, nelle sue varie forme, è ripreso nella gran parte dell’area e qualcuno degli sfollati sta lentamente rientrando. Purtroppo però, accanto a questi dati incoraggianti, dobbiamo registrarne altri molto negativi. Innanzitutto la violenza sta aumentando, i separatisti hanno più armi, e fanno più attacchi contro i militari. Hanno nuove strategie come fabbricarsi le bombe in proprio per portare a ridosso delle caserme le loro azioni belliche. L’esercito risponde duramente e qui si vive in uno stato di permanente insicurezza. Aumentano i rapimenti, le torture e la vita è diventata impossibile. La gente non ne può più, vogliono vivere in pace e fare una vita normale ma c’è ancora troppa paura. La popolazione è In mezzo a due forze opposte che dicono di essere lì per proteggerla ma soffre per mano di entrambe. C’è una grande sofferenza e il nostro focus non può essere che la popolazione”.
La maggior parte dei cosiddetti” Amba Boys”, i gruppi armati indipendentisti che prendono il nome dalla Baia di Amba nella città di Limbe, luogo simbolico delle regioni anglofone (e radice del nome di Ambazionia, la Repubblica autoproclamatasi indipendente nel 2017,ndr) sono di fede cristiana e frequentano le tante chiese presenti nel territorio che vede in prevalenza netta fedeli di Cristo.
“Molti Amba sono miei fedeli, alcuni ascoltano le nostre prediche perché vanno regolarmente a messa e quando faccio visite pastorali, anche nei luoghi più remoti li incontro e parlo con loro faccia a faccia, io inerme e loro con le loro armi. Mi ascoltano e posso dire che molti di loro sono usciti dalla foresta Ho fatto una visita pastorale a Wum, una zona dove sono in azione molti Amba Boys. Una sessantina di loro hanno deciso di lasciare e ora si dedicano alla pace. A migliaia stanno lasciando la lotta armata, ma il problema che sempre tanti ne entrano a far parte. Il reclutamento è sempre molto vivo perché fa leva sulla povertà o sull’offerta di una attività a ragazzi che non fanno nulla anche perché le scuole sono state chiuse dagli Amba. I separatisti giocano anche molto sull’attrattiva di garantire a tutti i giovani ottimi lavori una volta conquistata l’indipendenza”.
Mons Nkea è molto impegnato nel tentativo di mediare e ricomporre una situazione di calma nelle regioni anglofone abitate da 8 milioni di persone. Ma è anche un Pastore cui è affidata la cura di tanti fedeli: la diocesi di Bamenda conta circa 2 milioni di abitanti, il 40% circa dei quali sono cattolici.
“Sono principalmente un Pastore – osserva - e quindi il mio ruolo è predicare il Vangelo e portare pace. Le mie omelie sono tutte orientate alla riconciliazione, così anche i miei insegnamenti. Ad aprile 2020 ho scritto una lunga lettera pastorale ‘Time for peace is now’ che ricalca la mia visione della pace, noi abbiamo bisogno di pace per trovare giustizia e ristabilire un equilibrio che qui è andato perso. Siamo consapevoli, però, che la giustizia potrebbe non essere mai raggiunta, ma intanto abbiamo bisogno di vivere in pace se vogliamo provare a correggere le iniquità. In ogni caso, il mio credo è nessuna pace sarà mai raggiunta con le armi. Nel frattempo ci siamo molto impegnati a Bamenda a costruire luoghi che aiutino la riconciliazione”.
Aggiunge l’Arcivescovo: “Sto costruendo molte scuole perché il bisogno è enorme e voglio dare questa opportunità a tanti ragazzi; poi presidi sanitari, specie ora che i problemi di salute sia fisica che mentale, sono in aumento. Ci sostengono la Conferenza episcopale statunitense, la Caritas tedesca, Missio in Germania e Aid to the Church in Need. Inoltre stiamo formando molto personale missionario esperto in peace bulding grazie all’aiuto di Swiss Peace. Detto tutto questo, è fondamentale aiutare a tornare a Do in preghiera perché attraverso la preghiera gli individui possono riprendere ad armarsi”.
La Chiesa si pone come punto di riferimento saldo per il Camerun nella ricerca di strade che puntino alla pace e al dialogo nazionale. Il governo ha molto apprezzato l’elezione di Nkea a presidente della Conferenza dei vescovi, perché è un uomo che conosce bene la situazione delle regioni anglofone e può giocare un ruolo decisivo. Di recente, l’Arcivescovo ha incontrato il primo Ministro Joseph Ngute
“Il 12 giugno, in qualità di presidente della Conferenza Episcopale – racconta – ho visto il Primo ministro. Insieme con me c’erano il vice-presidente e il Segretario generale della conferenza. Abbiamo discusso della situazione generale socio politica del paese e i modi in cui la Chiesa può aiutare a portare pace. La Chiesa si è offerta come strumento di riconciliazione e vuole fare tutto quanto è nelle sue possibilità per portare le parti assieme. Il premier si è dimostrato molto aperto e ha riconosciuto quello che la Chiesa ha fatto fino ad ora e spera in una migliore collaborazione nel futuro. Ci ha detto che è sempre disponibile a ricevere rappresentanti della Chiesa. Siamo aperti a facilitare dialogo e anche fare appello alla nostra gerarchia direttamente a Roma se c’è bisogno. Credo che si debba parlare con tutti, anche con coloro che si macchiano di crimini. Se ci si comporta come se l’altro non esistesse, lo si rende ancora peggiore. Se ci si parla, c’è una speranza di cambiamento, affidata alla grazia di Dio che può cambiare i cuori”.
L’Arcivescovo chiede anche al governo dovrebbe “segnali di buona volontà”, come “liberare i prigionieri politici, asfaltare le strade (da quando si entra nella zona anglofona venendo da quella francofona per raggiungere Bamenda, le strade, incluse quelle dentro la città, anche in centro, sono sterrate, in alcuni tratti a limiti della mulattiera, ndr)”. “Ho sempre rivolto il mio impegno alla ricerca della pace, da oggi, credo che la mia posizione sia molto più rafforzata perché dietro di me c’è il peso della intera Conferenza dei Vescovi. Vorrei ricordare però che qui siamo molto uniti con le altre fedi e confessioni. C’è un lavoro di grande collaborazione e condivisione con il Moderatore della Chiesa Presbiteriana, il leader della Chiesa Battista e gli Imam di Bamenda e di Buea”, nota.
La via che la Chiesa persegue, in ogni caso, è quella del dialogo: essa vuole continuare a spingere le fazioni in conflitto, per quanto ostili possano sedersi e parlare: “Credo che il dialogo debba assolutamente continuare, ma visto che i gruppi in gioco sono molto divisi (anche all’interno dei separatisti, ndr) bisogna immaginare un dialogo a livello di individui. Il nostro principale sforzo al momento è far sì che vogliano parlarsi. Sto suggerendo al governo e ai leader degli Amba Boys di incontrarsi singolarmente: non si può raggiungere un buon livello di dialogo in un giorno, bisogna costruirlo gradualmente. Ci sarà tempo, poi, per affrontare le profonde radici alla base di questo conflitto, che giacciono nella storia. L’urgenza, però, è fermare le armi”.