Un lucignolo di Vangelo
di Paolo Affatato *
Dopo un secolo si interrompe la missione cattolica dei padri barnabiti in Afghanistan. L'unico sacerdote cattolico presente nel paese, Superiore della missio sui iuris, rientra in Italia e con lui le suore di diverse congregazioni presenti nella nazione
“In manus tuas, Domine. Possiamo dire solo questo oggi, riconsegnando nelle mani di Dio questi cento anni di missione. La missione affidata ai padri barnabiti, pensata per l’Afghanistan fin dal 1921, ha un futuro incerto. Staremo a vedere cosa ci riserverà l’avvenire, quale sarà la volontà di Dio”. Mentre i talebani hanno preso il potere e si intravede la creazione dell’emirato islamico dell’Afghanistan, padre Giovanni Rizzi, missionario barnabita, biblista e storico della congregazione, conferma che padre Giovanni Scalese, suo confratello attualmente Superiore della missio sui iuris in Afganistan, unico sacerdote cattolico presente nel paese, è rientrato in Italia e, con lui, rientra tutto il personale cattolico, come le suore di diverse congregazioni che prestavano servizio sul territorio. Negli ultimi anni la vita di padre Scalese, per motivi di sicurezza, era confinata all’interno dell’Ambasciata italiana a Kabul e tutto il personale diplomatico e tecnico dell’istituzione, incluso il sacerdote, viene rimpatriato in questi giorni con il ponte aereo organizzato dal Ministero degli esteri italiano. Nelle ultime concitate settimane, Scalese ha potuto solo lanciare un accorato appello alla preghiera: “Pregate, pregate, pregate per l’Afghanistan”, ha detto a Vatican news.
I barnabiti in Italia hanno seguito con trepidazione gli eventi, con il ritiro del contingente militare internazionale e la conquista del territorio da parte dei talebani. L’instaurazione di regime islamico estremista, temono i religiosi, potrebbe significare l’interruzione o un profondo ripensamento di quella missione cattolica che proprio nel 2021 ha compiuto un secolo di vita. Pur con un raggio di azione limitato, nell’avvicendarsi dei governi di Kabul e in un territorio segnato da lunghi e sanguinosi conflitti, è stata utile a tenere acceso un lucignolo di Vangelo e a garantire la presenza dell’Eucarestia in un paese islamico.
In un’area che, nei primi secoli dello scorso millennio, era caratterizzata dal pluralismo religioso, soprattutto da zoroastriani e buddisti, l’Afghanistan è diventato quasi del tutto musulmano a partire dalle conquiste arabe del 642-842 d.C. L’islamizzazione completa si ebbe alla fine del XIX secolo, dopo i ripetuti tentativi dell’Inghilterra di domare il paese, che invece raggiunse la sua indipendenza nel 1919. Padre Rizzi, autore della monumentale opera in due tomi Ottant’anni in Afghanistan, in cui narra con dovizia di particolari la missione barnabita, ricorda: “Nel frattempo era cominciato un faticoso cammino di modernizzazione, che l’emiro Amanullah, divenuto ufficialmente re dell’Afghanistan il 28 febbraio 1919, cercò di proseguire e di incrementare”. Il paese, allora, volle promuovere la collaborazione con gli stati europei ed occidentali, ospitando, oltre ai corpi diplomatici di diverse nazioni, personale occidentale impegnato con contratti di lavoro. “Tra questi tecnici e professionisti – ricorda lo storico barnabita – vi erano cristiani cattolici e riformati. In questo contesto i cattolici, attraverso le legazioni o ambasciate dei rispettivi paesi, chiesero la presenza di un sacerdote che potesse assistere spiritualmente questa comunità disseminata su tutto il territorio. Il re Amanullah fece sapere alla Santa Sede di essere disposto a soddisfare questa richiesta, passando attraverso lo stato italiano”.
Era l’alba della missione cattolica in Afghanistan. L’Italia era stato il primo paese occidentale a riconoscere, nel 1921, l’indipendenza dell’Afghanistan. L’intesa italo-afgana era stata siglata nello stesso anno e il Primo Ministro del governo afgano, Muhammad Hascim Khan, dichiarò pubblicamente di voler assecondare le esigenze spirituali dei funzionari delle ambasciate occidentali e dei tecnici stranieri presenti nel paese. Tra la stipula del trattato italo-afgano e la scelta del “cappellano cattolico” passarono una decina d’anni. Per la scelta, Papa Pio XI, cioè Achille Ratti, che era nativo di Desio, indicò il barnabita padre Egidio Caspani, originario della sua stessa città. “Caspani – spiega Rizzi – ufficiale dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale, buon conoscitore di lingue (inglese, francese e tedesco, tra quelle moderne) era anche un insegnante di dogmatica e di storia, appassionato di Bibbia; era persona dal carattere schivo, ma solido e tenace nell’assumersi responsabilità delicate e di lungo corso. Era uno degli assistenti di cui si avvaleva il Superiore generale dei barnabiti, ed era anche responsabile della formazione dei chierici barnabiti a Roma. Fu lui il prescelto per la delicata missione in terra afgana”.
Pio XI volle espressamente padre Caspani, ritenendolo particolarmente adatto per la nuova missione in un paese in quel momento profondamente chiuso a qualsiasi rapporto ufficiale con il cristianesimo. “Le sue consegne a Caspani, accanto alle funzioni di cappellano per i cattolici in terra afgana – continua padre Rizzi – includevano anche studiare a fondo la geografia, la storia, l’economia, la costituzione, la cultura e le tradizioni religiose del paese”.
Dopo alcune tracce risalenti al VII secolo, era la prima volta che in Afghanistan tornava ufficialmente una presenza cristiana, col permesso del governo. Nell’accordo si stabilì che la cappella cattolica non sarebbe sorta in territorio afgano, ma nel territorio dell’ambasciata italiana a Kabul: escamotage per poter continuare a dire che “nessuna chiesa cristiana sorgeva in territorio musulmano”. Secondo i patto, il governo afgano permetteva la costruzione di una cappella (che nel 1960 diverrà chiesa) perché si svolgessero riti religiosi a beneficio della comunità cattolica in Afghanistan, dando al cappellano il permesso di servire gli altri gruppi di cattolici disseminati all’interno del paese. “Ci si doveva astenere da ogni forma di proselitismo verso la popolazione musulmana, ma per il resto quel sacerdote era il parroco dell’Afghanistan”, ricorda Rizzi.
Dal 1° gennaio 1933, data dell’inizio concreto della missione barnabitica in Afghanistan, si sono succeduti fino ad oggi sei missionari: Egidio Caspani (1933-1947), Giovanni Bernasconi (1947-1957), Raffaelle Nannetti (1957-1965), Angelo Panigati (1965-1990), Giuseppe Moretti (1989-1994). Nel gennaio 1994 Moretti fu ferito nel corso di un bombardamento dell’ambasciata italiana; dovette rientrare in Italia e poté tornare a Kabul solo 2002 quando la cappellania presso l’ambasciata italiana a Kabul fu costituita come “Missio sui iuris” da Papa Giovanni Paolo II, e il primo Superiore ecclesiastico fu proprio padre Giuseppe Moretti (2002-2015). Lo ha sostituito padre Giovanni Scalese a partire dal 4 novembre 2014.
Grazie all’accordo di cento anni fa, che permetteva ufficialmente la presenza cattolica, altre congregazioni religiose e istituzioni cristiane sono state accolte in Afghanistan: le Piccole Sorelle di Gesù (1955-2012), in tempi più recenti: le Missionarie della Carità (dal 2006), i Padri Gesuiti (dal 2005), la comunità intercongregazionale “Salvate i bambini di Kabul” (dal 2004). Membri di altri ordini religiosi hanno operato in Afghanistan durante il ministero pastorale di padre Bernasconi e di padre Panigati. Altri religiosi cattolici hanno lasciato una traccia di bene nel paese: soprattutto il domenicano P. Serge De Beaurecueil (islamologo ed esperto di mistica musulmana) e il paleontologo A.F. De Lapparent, dei sacerdoti di S. Sulpice, che hanno insegnato e svolto il loro ministero sempre in collaborazione con i barnabiti. Va notato che i cappellani militari cattolici dei diversi contingenti militari e la Caritas Italiana sono giunti in Afghanistan in seguito dell’intervento della coalizione internazionale, dopo i fatti dell’11 settembre 2001.
Ricorda padre Rizzi che “il ministero pastorale dei barnabiti si è svolto per molti anni serenamente: i primi missionari come Egidio Caspani e il confratello Ernesto Cagnacci (che lo assisteva come collaboratore) potevano muoversi in buona sicurezza in tutti i distretti del paese, visitando gruppi di cattolici di qualsiasi nazionalità, godendo di libertà di culto, e guadagnandosi rispetto e stima della popolazione musulmana locale. I due hanno scritto un testo che ha fatto scuola: Afghanistan, crocevia dell’Asia”.
L’attività sociale ed educativa, lungo i decenni, si è poi estesa alla scuola per i figli dei diplomatici, ma anche per alcune fasce della popolazione locale. Intensa, inoltre, è stata, nell’arco di un secolo, l’attività e la collaborazione ecumenica con le altre confessioni cristiane, il dialogo con esponenti di alcune religioni non cristiane e soprattutto, nota, “il dialogo di vita con la popolazione musulmana locale”. Infatti, rileva Rizzi, “nei tempi più difficili della repressione sovietica, al sacerdote e alle suore spesso i fedeli musulmani si rivolgevano chiedendo una preghiera d’intercessione per il paese martoriato dalla guerra. Durante il periodo del conflitto tra le varie fazioni e milizie afgane, quando la maggioranza dei rappresentanti delle ambasciate occidentali aveva abbandonato il paese, il cappellano era limitato nei movimenti e restava in ambasciata, quasi fosse “agli arresti domiciliari”. “Ma – ricorda il barnabita – è comunque rimasto là accanto alla gente, apprezzato e rispettato anche alla popolazione musulmana. ‘Almeno lei non se ne va’, gli dicevano i pochi fedeli cattolici e gli stessi musulmani afgani. Il cappellano cattolico era un punto di riferimento per tutti. Tanto che nel 1989 il Ministero degli Affari esteri della Repubblica dell’Afghanistan ha espresso ufficialmente la sua riconoscenza alla Santa Sede per la presenza del cappellano cattolico nelle difficili circostanze in cui versava il paese”.
Dopo un secolo di missione, padre Rizzi oggi afferma: “I padri barnabiti si attengono alla missione affidata loro dalla Santa Sede. Qualsiasi decisione pastorale dipenderà ora dall’evoluzione della situazione politica internazionale e interna all’Afghanistan stesso. E’ trascorso un secolo e oggi, con il governo dei Talebani, si apre un tempo pieno di incognite. Non possiamo fare altro che riconsegnare nelle mani del Padre questa avventura missionaria e sperare che possa in qualche modo continuare, se Dio vorrà”.
[L’articolo è stato pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 24 agosto 2021]
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Agenzia Fides