Unica arma: il Vangelo
di Paolo Affatato *
Parla Suor Ann Nu Thawng, la religiosa della congregazione di San Francesco Saverio, icona della presenza dei fedeli cattolici in Myanmar
Non si sente un’eroina. Non vuole essere protagonista né pensa di meritare elogi. È semplicemente una persona di fede, una operatrice di pace, una donna per cui la preghiera diventa azione di carità. Suor Ann Nu Thawng è divenuta un’icona della presenza dei fedeli cattolici in Myanmar (circa 650 mila nella nazione con 53 milioni di abitanti in prevalenza buddisti), mentre una ondata di protesta pacifica agita il Paese all’indomani del colpo di Stato militare che il 1° febbraio ha interrotto bruscamente l’esperienza democratica. La giunta militare ha spodestato il governo eletto a novembre 2020, arrestando il presidente Win Myint, la leader Aung San Su Kyi e altri esponenti della Lega nazionale per la democrazia. In una nazione che aveva vissuto già settant’anni di dittatura militare nel secolo scorso, la popolazione, soprattutto quella giovanile, ha acquisito una consapevolezza dei propri diritti civili e una visione sul futuro del Paese. Da qui è sgorgato un movimento spontaneo di resistenza pacifica e di disobbedienza civile che si è coagulato in manifestazioni di piazza registratesi in tutte le maggiori città birmane. Di fronte alla protesta popolare, l’esercito regolare ha messo in atto misure di repressione sempre più dure, in un crescendo di violenza su giovani inermi mentre, per scoraggiare i dimostranti, i cecchini hanno iniziato a sparare sulla folla.
Vedendo giovani innocenti percossi, feriti e uccisi – mentre la nazione temeva l’imposizione di un rigido coprifuoco – numerosi sacerdoti, religiosi e religiose e alcuni vescovi cattolici hanno rotto gli indugi e sono scesi in strada, con un solo obiettivo: salvare delle vite. Animati dalla forza della nonviolenza evangelica e della preghiera, hanno fatto scudo con il loro corpo, spesso frapponendosi tra gli schieramenti dei poliziotti che avanzavano e dei manifestanti che resistevano, fermi nei loro sit-in. A Yangon, Mandalay, Myitkyina, Loikaw, Naypyidaw preti e religiosi e religiose cattolici – persone considerate con massimo rispetto nella società, in quanto guide spirituali – hanno messo in campo tutta la loro forza morale, fatta di mitezza e compassione, per impedire che le strade birmane si bagnassero di sangue. Un contributo speciale lo hanno dato le consacrate: hanno fatto il giro del mondo le immagini di suor Ann Nu Thawng, 45 anni, religiosa della congregazione di San Francesco Saverio, che nella città di Myitkyina, capitale dello stato Kachin, si è inginocchiata implorando i militari di fermarsi e di non uccidere. Suor Ann racconta quei momenti di tensione.
Msa. Suor Ann, può ricordare che cosa è successo quel 28 febbraio a Myitkyina?
Nu Thawng. Era già un mese che i giovani si riversavano nelle strade. Con le mie consorelle avevamo deciso di tenere aperta, per ogni evenienza, la clinica cattolica annessa al nostro convento, normalmente usata per i pazienti più poveri o per i rifugiati che sono nel nostro territorio dello Stato Kachin. Quella domenica oltre mille giovani di diversi ceti sociali si sono riuniti per iniziare una manifestazione di protesta pacifica contro il colpo di Stato militare. Chiedevano di liberare il nostro presidente Win Myint e Aung San Suu Kyi. Ero uscita in strada e ho visto la polizia schierata che si avvicinava ai manifestanti. All’improvviso, gli agenti sono usciti dai loro veicoli e hanno iniziato a percuotere i giovani disarmati. Alcuni erano a terra feriti. Temendo una strage, mi sono diretta verso i poliziotti gridando a gran voce di non far loro del male. Piangevo per la tensione e la commozione. Mi sono inginocchiata davanti a loro e ho teso le braccia verso il cielo, invocando il nome del Signore. I giovani sono fuggiti dietro di me.
Che reazione hanno avuto i poliziotti?
Sono rimasti sorpresi dal mio gesto. Sembra che i militari abbiamo ascoltato le mie suppliche. Si sono fermati. Ho continuato a parlare con loro. Ho cercato di stabilire un contatto con il loro cuore. Sono giovani anche loro. Li ho implorati di non far del male a persone disarmate. «Siamo un unico popolo. E voi siete tutti bravi soldati che non dovreste fare del male alla gente pacifica ma proteggerla», ho detto loro. Un agente mi ha avvisato che la mia vita era in pericolo e mi ha chiesto di tornare in convento. Gli ho risposto che, invece di sparare ai giovani, avrebbero potuto arrestare o uccidere me. Sono pronta a sacrificare la mia vita per la mia gente. Hanno insistito perché me ne andassi, ho risposto loro che non mi sarei mossa da lì finché il duro confronto non fosse cessato. Dentro di me pregavo e invocavo lo Spirito Santo e l’aiuto della Vergine Maria. Ho visto che hanno parlato tra loro. Dopo alcuni attimi di tensione, hanno iniziato a indietreggiare.
Che cosa ha fatto a quel punto?
Mi sono sentita sollevata e sono tornata nella nostra clinica, dove oltre un centinaio di giovani avevano bisogno di cure. Intanto, anche gli altri giovani dimostranti hanno iniziato a disperdersi. Insieme con i medici e gli infermieri cattolici presenti, abbiamo dispensato cure e terapie ai feriti. E abbiamo ringraziato Dio perché non c’è stata nessuna vittima né ferito grave.
Papa Francesco, nell’udienza del 17 marzo, ha fatto riferimento al suo gesto, dicendo: «Anche io mi inginocchio sulle strade di Myanmar». Che cosa hanno detto i leader cristiani del suo Paese?
La conferenza episcopale cattolica del Myanmar ha suggerito a tutto il personale ecclesiastico di non unirsi ai manifestanti per la protesta in piazza. Ma il mio intervento mediatore e conciliatore ha avuto il riconoscimento e l’apprezzamento di tutti. Nei giorni successivi all’evento immortalato dalle foto, il nostro vescovo emerito Francis Daw Tang, venuto a celebrare la Messa nella nostra cappella, ha detto che il Paese ha bisogno di persone come me. Ma non credo di meritare elogi. Credo che, in questa fase critica per la nazione, noi religiosi possiamo offrire il nostro contributo per disarmare i cuori, difendere le persone indifese, incoraggiare al dialogo e alla pace, pregare e agire perché nel Paese non si sprofondi in un conflitto diffuso. La nostra missione è, sempre, annunciare e vivere il Vangelo dell’amore. La nostra missione, oggi, è salvare delle vite. Ogni vita è preziosa e, di fronte all’ingiustizia e alla violenza, occorre proteggerla.
Che cosa pensa della crisi che attraversa il Myanmar e, soprattutto, come vede il futuro del Paese?
La nostra gente, già colpita dal collasso economico a causa del covid-19, sta soffrendo gravemente per il colpo di Stato militare. I giovani chiedono libertà e democrazia e vogliono costruire un futuro di prosperità e di bene. Noi speriamo e preghiamo che non vi sia spargimento di sangue. La presenza di persone di fede, di noi cattolici ma anche dei monaci buddisti, può aiutare a far desistere dalla violenza. I vescovi e gli ordini monastici buddisti hanno alzato la voce chiedendo la fine delle ostilità e l’apertura di un tavolo di negoziato. Alcuni invocano l’intervento diplomatico della Santa Sede. Speriamo nella buona volontà di tutti e auspichiamo che la comunità internazionale possa prendere a cuore la sorte del popolo del Myanmar e aiutare la nazione in un processo di pacificazione, basato su giustizia, pace e verità.
[L'intervista è stata pubblicata sul "Messaggero di Sant'Antonio" di aprile 2021]
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Agenzia Fides