Africa, il Covid-19 non ferma le guerre
di Luca Attanasio
A oltre tre mesi di distanza dall'appello alla tregua globale, lanciato dal Segretario Generale dell'ONU Antonio Guterres e da Papa Francesco, i rappresentanti della Chiesa cattolica di tre Paesi in cui imperversa da anni il conflitto illustrano la situazione e i motivi alla base di un rifiuto a sospendere, almeno temporaneamente, la belligeranza.
Quando - nell’ultima settimana di marzo - il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres prima, e Papa Francesco poi, proprio nel momento in cui la pandemia stava assumendo dimensioni spaventose , lanciarono un accorato appello a proclamare un cessate il fuoco universale, il mondo sembrò ascoltarli. In Siria, Camerun, Filippine, Yemen, Congo, ad esempio, emersero segnali di distensione e, complice anche il terrore di contrarre il virus, alcuni eserciti o milizie delle 70 guerre che infiammano il pianeta, silenziarono le proprie armi. Quei segnali incoraggianti non hanno avuto seguito. L’invito del Papa a cogliere la drammatica occasione per “sospendere ogni forma di ostilità bellica” e favorire l’apertura “alla diplomazia, l’attenzione a chi si trova in situazione di più grande vulnerabilità” è rimasto in mote regioni del mondo “lettera morta”. Fin da metà aprile, in gran parte dei luoghi che avevano cessato almeno parzialmente gli scontri, si è ripreso a sparare, in tutti gli altri, in realtà, non si era mai smesso.
A oltre tre mesi di distanza, si può dire che i messaggi del Papa e di Guterres siano rimasti inascoltati. L’Agenzia Fides ha parlato con rappresentanti della Chiesa cattolica di tre Paesi in cui imperversa da anni il conflitto e cercato di capire quale siano la situazione e i motivi alla base di un rifiuto a sospendere – almeno temporaneamente – la guerra.
È un anniversario amaro quello che la Repubblica Democratica del Congo ha festeggiato il 30 giugno scorso. I 60 anni dall’indipendenza dal Belgio (Re Filippo, per l’occasione, ha ufficialmente chiesto scusa per i crimini coloniali per la prima volta, ndr) cadono in un periodo ricco di tensioni. Instabilità politica ormai cronica, povertà endemica nonostante infinite risorse, l’arrivo del coronavirus e la notizia di un nuovo focolaio di Ebola nelle regioni occidentali proprio all’indomani della dichiarazione di definitiva archiviazione del virus in quelle orientali, rendono il momento molto difficile. Ma su tutti questi fattori, più ancora pesa la guerra. Gli scontri che insanguinano da decenni il nord-est del Paese e che generano mezzo milione di profughi interni oltre a centinaia di migliaia di esterni, non sembrano avere fine. Qui, l’eco del messaggio di Francesco ha avuto qualche timido riverbero, ancora troppo flebile per convincere la maggioranza dei belligeranti a deporre le armi.
“Il messaggio o meglio il caloroso invito del Santo Padre è stato immediatamente accolto dai vescovi nella Repubblica Democratica del Congo – spiega a Fides Monsignor Marcel Utembi Tapa, Arcivescovo di Kisangani e presidente della Conferenza Episcopale – e subito trasmesso ai governanti e alle fazioni in guerra nelle regioni afflitte da scontri tra gruppi armati o miliziani e forze lealiste. In Ituri, nel Nord Kivu e nel Sud Kivu, alcuni elementi dei gruppi armati hanno deposto le loro armi per mettersi a disposizione delle autorità governative e per rinunciare alle ostilità. Per citare alcuni esempi In Ituri il FRPI (Front for Patriotic Resistance), composto da oltre 1.000 elementi, è in fase di reinserimento sociale. È lo stesso per alcune centinaia di Mai Mai nella regione di Butembo e Beni. Il problema, però, è che le milizie che hanno imboccato la via del negoziato restano una minoranza: ci sono molti gruppi armati che preferiscono continuare il loro sporco lavoro”.
Continua l’Arcivescovo: “Il presidente della Repubblica, Félix Tshisekedi, continua a sollecitare i gruppi armati sparsi in tutto il territorio nazionale a deporre le armi e favorire la via del dialogo e della pacificazione. I Vescovi, da parte loro, invitano i fedeli a pregare per la riconciliazione e sono attivi nelle diocesi per favorire in ogni modo la pace. A livello regionale, una piattaforma di denominazioni religiose che raggruppa sei paesi è attiva nella sensibilizzazione e nelle iniziative a favore della pace e della dignità umana. Questa piattaforma si chiama ‘Dignity and Peace Platform on the Great Lakes’. Riunisce le confessioni religiose della Repubblica Democratica del Congo, del Congo Brazzaville, della Repubblica Centrafricana, dell'Angola, del Burundi, del Ruanda e del Sud Sudan. Questa piattaforma include tra le sue priorità una opera di sensibilizzaizone presso i governi perché lavorino costantemente per la pace, la dignità e la solidarietà su base regionale”.
Secondo Padre Léonard Ndjad, provinciale dei missionari comboniani in Congo, “la situazione è profondamente segnata da incertezza, insicurezza, povertà e precarietà, ma all’origine di tutti questi problemi, c’è l’interesse di una minoranza ad avere tutta la ricchezza del Paese. Neanche il coronavirus è riuscito a far ragionare le parti in guerra perché ci sono interessi per i quali la vita umana conta poco. La Chiesa in questo contesto gioca un ruolo sempre più importante. innanzitutto annuncia il Vangelo che libera e chiama alla conversione e alla pace profonda. Poi denuncia le ingiustizie e trasmette al popolo il coraggio profetico per la lotta per la liberazione integrale”. Nei giorni scorsi la Conferenza Episcopale ha pubblicato un documento dal titolo molto evocativo: “Chi semina il vento raccoglie tempesta” (Os 8, 7). I Vescovi contestano i tentativi di corruzione e segnalano che la maggioranza parlamentare non si preoccupa del bene della gente. “La Chiesa – prosegue il Comboniano - è fedelmente accanto ai più bisognosi. Dietro tutti questi problemi, però, ci sono alcuni segni di una rinascita. Il governo sta facendo un lavoro positivo per ciò che riguarda la giustizia, vuole stabilire pienamente uno stato di diritto. Inoltre, per la prima volta, 2,5 milioni di bambini sono stati iscritti alla scuola primaria senza costi e anche se sono stati costretti a rimanere a casa durante il lockdwon, guardano al futuro con fiducia. Da una parte, quindi, una grave crisi, ma dall’altra qualcosa di bello sta arrivando”.
“In Nigeria – nota a Fides Monsignor Charles Hammawa, Vescovo di Jalingo capitale dello Stato di Taraba, uno dei più colpiti dai terroristi di Boko Haram e in stato di guerra ormai da otto anni – stiamo vivendo un tempo molto problematico, con molti combattimenti specie nelle regioni nord-orientali. Lo Stato di Taraba è al centro delle operazioni dei jihadisti da anni, ma anche altri come Borno o Yobe sono sotto dura pressione. Dobbiamo fare i conti anche con le ostilità tra allevatori e contadini così come con i continui scontri etnici. Al di là di questi focolai di vero e proprio conflitto, poi, da noi si combatte un altro tipo di guerra, i rapimenti, il banditismo diffuso, le rapine con armi, anche questo fenomeno causa morti e distruzione. È un contesto molto preoccupante. Alla base c’è un odio molto profondo di caratteri etnico, religioso o politico, alimentato costantemente dal pregiudizio. Ma il denominatore comune di ogni conflitto o tensione è sempre la ricerca continua di potere e dominio politico e economico”.
Il Vescovo rileva: “Questa è la situazione, un contesto devastante dal punto di vista economico e umano. Il mio Stato è sostanzialmente agricolo, ma per tutti gli scontri che si sono succeduti, la terra non viene coltivata. Ma anche la Chiesa è colpita duramente, abbiamo dovuto chiudere chiese perché in alcune zone sono scappati tutti oppure perché è troppo pericoloso restare. Al di là di tutto, poi, il problema più grande è che molte vite sono andate perdute. Quando il Papa ha chiesto a tutti di fermarsi e riflettere, abbiamo sperato in un cambiamento, ma neanche la pandemia ha fermato la volontà criminale di tanti”
Tutto sembra arrestarsi all’arrivo del virus, tranne la violenza. Un fenomeno difficilmente spiegabile che il Vescovo di Jalingo prova a interpretare così: “Nessuno si dedica a informare in modo sano. Al contrario si diffonde odio profondo per interessi personali. I poveri sono utilizzati per difendere gruppi etnici religiosi o politici essendo facilmente manipolabili e a loro viene inculcato che prima della difesa dal Covid-19, c’è l’urgenza di difendersi dai nemici della tua etnia, della tua religione, della tua parte. Qui c’è molta gente che considera la pandemia secondaria o addirittura un’invenzione. La guerra, quindi, direttamente o indirettamente, ha favorito la diffusione del virus La Chiesa ha offerto spazi di incontro e non ha mai cessato di ricercare riconciliazione, perdono, pace e accettazione, questo è il nostro mandato. Abbiamo parlato con le parti in guerra sia separatamente che collettivamente e siamo ovviamente a fianco dei tantissimi sfollati che ogni giorno aumentano”.
Dopo una prima accoglienza delle richieste di Papa Francesco e di Antonio Guterres, le due fazioni in lotta nelle regioni anglofone del Camerun, hanno ripreso a guerreggiare mostrando una sostanziale indifferenza agli appelli così come all’avanzare della pandemia (12.600 casi e 313 morti al 1 luglio, ndr). Il Camerun, tedesco fino al 1918, finita la Grande Guerra, venne spartito tra i vincitori del conflitto e diviso in due parti: la parte sud-occidentale, confinante con la Nigeria, finì sotto il controllo del Regno Unito, mentre il restante 80%, comprendente la capitale Yaoundé, alla Francia. Dall’indipendenza in poi, le frizioni tra la minoranza anglofona e la maggioranza francofona sono andate aumentando culminando, nel 2017, con la dichiarazione di indipendenza degli irredentisti e la nascita della sedicente Repubblica di Ambazonia (da Ambas Bay, la baia del fiume Mungo che in epoca coloniale segnava il confine tra la Repubblica del Camerun e il Camerun sud-occidentale inglese) e con gli scontri gravissimi tra separatisti ed esercito regolare. Negli ultimi tre anni, il contesto è andato esacerbandosi. “La situazione è molto precaria - rivela a Fides Monsignor Andrew Nkea, Arcivescovo di Bamenda, capitale delle regioni anglofone - in genere di mattina è più calma, ma dal pomeriggio la tensione riprende a salire. Nelle città delle nostre regioni tutto è più sotto controllo ma dalle campagne le notizie che giungono sono pessime, la gente scappa anche per paura della diffusione del Covid-19. Il messaggio del Papa era stato ben ricevuto e alcuni dei separatisti nei giorni successivi hanno scritto una dichiarazione che faceva ben sperare. È bastato poco tempo, però, che le fazioni sono ritornate a farsi la guerra. Per Pasqua abbiamo rinnovato l’appello alla pace e chiesto an che per radio almeno una tregua, per un po’ è stata rispettata da entrambe le parti in causa, ma poi tutto è tornato come prima. La Chiesa, qui da noi, è molto stimata e approfittando di ciò, abbiamo intavolato colloqui sia con gli ‘Amba Boys’ (nomignolo dato agli attivisti fedeli alla causa dell’Ambazonia, ndr) che con i rappresentanti del governo. Abbiamo denunciato gli abusi di ambo le parti e, pian piano, sembra si stia creando una atmosfera propensa al negoziato. Per noi, il tempo del dialogo nei grandi consessi alla presenza di rappresentanti ufficiali con stampa e pomposità, è finito. Il vero dialogo si fa con i singoli individui, sul terreno, un dialogo personale, quindi, fuori dai riflettori. La Chiesa sta perseguendo questa via. Certo la situazione resta molto complicata, è difficile parlare di ricostruzione mentre si odono ancora gli spari. Nei luoghi in cui c’è più calma, per fortuna, si può iniziare e da lì bisogna ripartire per ricostituire un tessuto lacerato: è ovvio che ognuno ha un suo punto di vista ben radicato, ma deve essere chiaro a tutti che la violenza non potrà mai risolvere nulla. Solo il dialogo ci salverà, dialogo con tutti, anche con quelli in prigione. Per noi, in ogni caso, la soluzione – come sosteniamo fin dall’inizio – sarebbe la celebrazione di un referendum sulla natura di gestione del potere nelle nostre regioni”.