Africa, il soft-power delle madri
di Luca Attanasio
Hauwa Ibrahim, fondatrice di "Mothers withour borders" è entrata in contatto con le mamme di alcuni giovani terroristi legati al gruppo Boko Haram in Nigeria. “Quei ragazzi si erano uniti a Boko Haram alla ricerca di un senso nella vita. Compresi quanto quell’arma dolce fosse più forte di cento eserciti e pensai che fosse il valore aggiunto nella lotta contro il dilagare del terrorismo e dell’estremismo violento per raggiungere un mondo più sicuro e pacifico”.
A soli 11 anni fuggì di casa per studiare. Aveva compreso che se fosse rimasta nella sua famiglia avrebbe finito per sposare un uomo molto più grande di lei, restare reclusa a occuparsi di casa e figli e, soprattutto, dire addio per sempre alla possibilità di leggere, studiare, capire. Comincia da qui l’incredibile storia di Hauwa Ibrahim, la ragazzina coraggiosa di Hinna, Stato del Gombe, Nigeria del nord, divenuta prima avvocatessa e poi docente ad Harvard di "Women, Justice and Sharia" e "Introduction to Critical Human Rights Thoughts and Social Justice" all’università romana di Tor Vergata. Premio Sakharov per la pace 2005 è universalmente nota per la sua instancabile lotta per l’emancipazione femminile, la prevenzione e il contrasto al radicalismo giovanile e la promozione della pace. Per anni ha offerto pro-bono i suoi uffici a donne destinate alla lapidazione per supposto adulterio nelle regioni governate dalla Sharia in Nigeria, difeso migliaia di persone, prestato la sua consulenza a governi interessati dalla violenza del terrorismo, fondato ‘Mothers withour borders’ il network di donne e madri che combatte la diffusione della violenza estremistica tra i giovani attraverso il soft-power delle mamme. Ora presenta il suo nuovo progetto - ‘The Peace Institute’ - con l’ambizione di promuovere dialogo e pace partendo dai più piccoli.
“Sono riuscita a studiare per caso, a laurearmi per caso, a divenire avvocato per caso, non era certo il mio destino. Ho deciso quindi di occuparmi di donne la cui sorte era restare per sempre impotenti, analfabete, indifese, per un senso di restituzione a quel mondo da cui provenivo, mi sono offerta di difenderle gratuitamente. Il nostro primo caso, Bariya Ibrahim Magazu, era stata condannata nel dicembre del 1990 a cento frustrate in pubblico perchè era rimasta incinta senza essere sposata sebbene avesse sempre denunciato di essere stata violentata da tre uomini, lo impugnammo nel 2000 e subito dopo mi interessai di Amina Lawal, una donna che sarebbe stata condannata a morte per lapidazione dalla Corte Suprema se fosse stato confermato il suo presunto adulterio. Amina fu liberata e da quel momento in poi, si rivolse a me un numero sempre crescente di persone da tutta la Nigeria. Difesi oltre 60 donne e 50 tra uomini, bambini, disabili in carcere. A quel punto molte ONG occidentali o gruppi di advocacy, videro nel caso di Amina una occasione per rivendicare l’abolizione delle punizioni previste dalla Sharia. Io, invece, pensai di agire diversamente e aggirare l’ostacolo. Scelsi di sfidare il paradigma dominante aggredendolo dall’interno al fine di provocare cambiamenti che si sarebbero poi riflettuti nella vita quotidiana delle donne. Pensavo a una strategia a lungo termine e studiai a fondo le dinamiche del sistema Sharia trovandone i punti deboli e mettendo a punto una metodologia vincente per i casi di cui io e il mio team ci occupavamo”.
Da quell’esperienza felice di difesa di donne sole e cambiamento o aggiramento delle strutture legali dall’interno, Hauwa trae maggiore consapevolezza dei suoi mezzi e acquisisce la fama di esperta di diritti umani e quando avviene il triste episodio del rapimento di 219 ragazze in Nigeria a opera del gruppo jihadista di Boko Haram, l’allora presidente Goodluck Jonathan, la chiama a far parte del team ufficiale che doveva occuparsene.
“In quel periodo, cominciai a viaggiare nel mio Paese d’origine e a incontrare madri di alcuni leader di Boko Haram che erano stati catturati e tenuti in custodia. Più tardi entrai in contatto con alcune mamme di terroristi nei villaggi. Sapevo che i loro figli erano stati irretiti da elementi radicali ma non volli parlarne inizialmente, mi interessava solo accostarmi a loro e cercare di capire meglio la loro realtà, da quali contesti provenissero e cosa potesse spingere un giovane di quegli ambienti a unirsi a jihadisti. Al di là delle folli sovrastrutture ideologiche, erano esseri umani, pieni di paura e con gli stessi bisogni di chiunque altro. Quei ragazzi si erano uniti a Boko Haram alla ricerca di un senso nella vita. Con l’aiuto delle madri riuscimmo a farli parlare di cose di che non avevano mai rivelato prima. Fu allora che mi si schiuse davanti gli occhi il potere soft delle mamme. Compresi quanto quell’arma dolce fosse più forte di cento eserciti e pensai che fosse il valore aggiunto nella lotta contro il dilagare del terrorismo e dell’estremismo violento per raggiungere un mondo più sicuro e pacifico. Quello stesso soft-power fu più tardi molto utile per il ritrovamento di decine di ragazzine rapite”.
Le voci del lavoro di Hauwa in Nigeria giungono alle orecchie del Principe giordano Hassan bin Talal che la vuole nel suo Paese per aiutare il governo ad affrontare questioni legate all’empowerment femminile e la protezione dell’infanzia. Nel Regno Hascemita, la Ibrahim incontra per la prima volta il mondo dei campi profughi. A Zatari e Irbid parla con molte donne e comprende che anche lì, a migliaia di km dal suo Paese, la dinamiche di reclutamento dei giovani verso l’Isis sono molto simili e che anche in quel contesto, il potente strumento della mamme sarebbe stato molto efficace.
“Le motivazioni erano molto simili, quei giovani del mondo arabo cercavano una esistenza migliore, un buon lavoro e uno scopo nella vita e l’ISIS prometteva tutto questo. La strategia delle ‘mamme’ funzionò anche lì: alcune di esse si unirono e ci permisero di prevenire l’arruolamento di giovani attratti dall’Isis. Queste due esperienze – l’incontro con le mamme in Nigeria e in Giordania con figli circuiti dal jihadismo – le strategie, la determinazione, la resilienza e il costante ricordo che “sono figli del nostro grembo” mi hanno fatto percepire una sorta di chiamata più alta e portato alla fondazione di Mothers’ Without Borders: Steering Youths Away from Violent extremism. La lotta al terrorismo può essere condotta con il supporto di carri armati, droni, munizioni e enormi potenze di fuoco. Forse, però, le forze nascoste delle mamme, le donne, le nonne, sarebbero potute essere il futuro della lotta contro il terrore”.
L’ incontro con il mondo del terrorismo e la convinzione che possa essere affrontato a mani nude, con il potente strumento dell’amore materno, porta Hauwa Ibrahim a diretto contatto con tante donne, tanti ragazzi e le loro storie. Alcune di queste restano fortemente impresse nella sua mente.
“Convinsi alcune donne ad andare in carcere e tornare a incontrare i propri figli arrestati per le loro attività terroristiche in Nigeria e ristabilire con loro un contatto. Ricordo due donne che erano convinte che i propri figli fossero morti mentre i ragazzi che le loro madri li avessero dimenticati per sempre. Quando si rividero in prigione, dopo tanto tempo, iniziarono a piangere senza sosta. Uno dei ragazzi si lanciò verso le braccia della mamma e non la lasciava più andare, era tornato bambino. Sono certa che tutti quelli presenti a quell’incontro, furono profondamente toccati e cambiati da quelle scene. Fu una delle prime esperienze e mi rinforzò nel pensiero che le mamme, le donne, sono capaci di esercitare una forza superiore, non solo verso i propri figli. È questo il senso di Mothers Without Borders, mettere insieme donne di tutto il mondo per favorire una lotta attiva verso l’umanizzazione di ragazzi che sembrano perduti per sempre e avvicinarsi alla pace e la riconciliazione”.
Nel 2018, forte del successo del suo lavoro e sempre più convinta che la pace si raggiunga con gli strumenti della cultura, la persuasione e la dolcezza più che con armi e violenza , fonda The Peace Institute, un’organizzazione internazionale che mira a diffondere dialogo e riconciliazione nel mondo.
“Il Peace Institute serve come epicentro per la pace e la formazione. Offre programmi ed eventi che mettano insieme bambini, mamme, docenti non-accademici, semplici individui, organizzazioni, leader politici e religiosi che esaminino strategie specificamente dedicate ai giovani. Vuole essere uno “spazio di respiro” una “Casa della Pace”, dove si dedicano ricerche, energie culturali ed educative, al miglioramento della vita dei bambini, i giovani e le donne. Il suo scopo è lavorare per costruire consapevolezza e sperare in un mondo migliore in cui le prossime generazioni non debbano obbligatoriamente rivolgersi a violenza e vivere in conflitto persistente. L’Institute vuole sottolineare la vitalità delle conoscenze delle comunità indigene, enfatizza il noto mantra africano ‘Io sono perché tu sei e tu sei perché io sono’ e punta a combinare educazione formale e non al fine di favorire una crescita olistica, non prevaricatrice, non-manipolativa e, infine, autoctona. Agiamo per offrire una esperienza di educazione alternativa che contrasti l’abbandono scolastico e la violenza giovanile specialmente tra bambini che lavorano o che vivono in situazioni di conflitto, al di fuori, ma in collaborazione, con il sistema scolastico.
Lo scorso anno abbiamo animato un campo di 6 settimane nel nord della Nigeria - The STEAM (Science Technology Engineering Art Mathematics) Summer Camps – che ha coinvolto 1250 ragazzi, nelle zone in cui Boko Haram è più attivo. Stiamo puntando ad allargare il raggio di azione anche ad altri Stati come Liberia e altri. Speriamo di implementare la metodologia anche nei sistemi scolastici africani”.
Dal 15 al 19 aprile prossimi, il Board del Peace Institute sarà a Roma per il primo in-person meeting. Verranno nella città eterna membri da tutto il mondo, Africa, Stati Uniti, Medio Oriente e Europa
“Venire a Roma ha per noi un significato simbolico, la città forse con più storia al mondo, dove risiede il Papa che ha fatto della pace il suo personale mantra. Non potevamo scegliere luogo migliore. Oltre che per incontrarci per la prima volta di persona, vogliamo sfruttare l’occasione per entrare in contatto con altre realtà e stringere rapporti solidi. L’incontro, quindi, che traccerà le linee guida per i prossimi 10 anni, ha tre scopi: tracciare una road map per le attività di Mothers Without Borders; fare un programma di azione per proseguire e incrementare la lotta al radicalismo e alla violenza attraverso i programmi STEAM specifici per ragazzi tra i 10 e i 14 anni e aumentare la nostra visione e il nostro networking attraverso l’incontro con realtà impegnate nella promozione dei diritti, la pace, la cultura, della Santa Sede e del mondo delle Ong. Siamo a Roma, il posto migliore per “Camminare sulle orme dei giganti”.