Sud Sudan, la pace è vicina
di Luca Attanasio
Il presidente ha annunciato un’intesa con il leader dei ribelli per la formazione di un governo di unità nazionale. Per suor Elena Balatti, comboniana da 20 anni residente in Sud Sudan, attenta osservatrice della situazione, con l’accordo politico anche il sogno di vedere Papa Francesco in Sud Sudan può diventare realtà
La pace è a portata di mano. Il Sud Sudan vive una fase cruciale della sua storia: è aperta la strada per porre fine al conflitto civile in corso da sei anni. Il presidente, Salva Kiir, ha annunciato infatti un’intesa con il leader dei ribelli, Riek Machar, per la formazione di un governo di unità nazionale. La popolazione Sudsudanese guarda con trepidazione e speranza al patto, dopo anni di sofferenza.
L’accordo di pace che durava dal settembre del 2018, il più lungo della brevissima storia del Sud Sudan, stava per esaurirsi come tanti altri siglati prima. Sembrava nuovamente vicino l’incubo della guerra civile che in meno di sette anni ha fatto circa 350mila morti, causato lo sfollamento interno ed esterno di quasi 4 milioni di persone e ridotto 7 milioni di cittadini allo stremo in emergenza alimentare. La nazione più giovane al mondo, staccatasi dal Sudan solo nel 2011, è tra quelle che con maggiore frequenza ricorrono all’utilizzo di bambini soldato, circa 20 mila, e non riesce a sfruttare le enormi potenzialità di un’area ricca di risorse.
Anche il clamoroso gesto di Papa Francesco, che nell’aprile 2019 aveva invitato i leader politici e religiosi in Vaticano, baciando loro i piedi e a implorandoli di prendere un solenne impegno per la pace, sembrava un lontano ricordo. Poi è giunta inaspettata la sorpresa più grande. “Il compromesso a cui siamo giunti oggi – ha dichiarato il presidente Salva Kiir il 15 febbraio, quando ormai risultava impossibile giungere a un accordo sulla nuova composizione dello Stato che accontentasse governo e opposizioni – è una dolorosa decisione, forse la più difficile della mia vita, ma allo stesso tempo rappresenta un passaggio necessario se vogliamo arrivare alla pace”. Con queste parole, Kiir annunciava di aver accolto le richieste di ridurre a 10 (da 32) gli Stati del Sud Sudan e metteva fine alle speculazioni riguardo l’imminente rottura delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale (come previsto dal Revitalized Agreement on the Resolution of the Conflict siglato a settembre) e il ritorno immediato alla guerra. “Lo scorso aprile – ha poi aggiunto - siamo stati in Vaticano alla presenza dei 3 leader religiosi mondiali (il Papa, L’Arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa Anglicana e il Moderatore della Chiesa Presbiteriana di Scozia, ndr). Abbiamo pregato e il Papa ci ha baciato i piedi. Non possiamo dimenticare questo. E' stata una benedizione per il nostro Paese non possiamo disattenderla tornando a farci la guerra”.
Si presenta ora la sfida della formazione del governo di unità nazionale, mentre il leader dell’opposizione armata Riek Machar - ex delfino di Kiir - ha fatto trapelare la sua opposizione alla creazione di tre nuove aree amministrative (il nuovo accordo prevede oltre alla riduzione degli Stati, l’istituzione delle tre amministrazioni di Ruweng, Pibor e Abye, ndr). Ma elementi che fanno ben sperare verso la pace sono chiari: l’esplicita dichiarazione del Presidente; il ritorno a Juba, il 16 febbraio, dello stesso Machar, dall’esilio di Khartoum; l’unità mostrata da tutti gli attori internazionali coinvolti (Unione Africana, Unione Europea, Autorità intergovernativa per lo sviluppo, Stati Uniti) nel vincolare gli aiuti alla tenuta della pace.
Il Paese tira un enorme sospiro di sollievo ma attende notizie sulla formazione del governo e dunque sul futuro del paese. Delle prospettive che si aprono in questo momento storico parla all’Agenzia Fides Suor Elena Balatti, comboniana da 20 anni residente in Sud Sudan, giornalista e attenta osservatrice della situazione.
“La scorsa settimana – rileva la religiosa – la tensione era palpabile, i cittadini comuni guardavano allo scorrere dei giorni del mese di febbraio con molta angoscia. In tutte le chiese cattoliche, così come di altre confessioni, si sono svolte preghiere e digiuni per invocare un cambio di rotta. Il culmine della tensione si è raggiunto venerdì 14 febbraio quando il presidente ha convocato tutti i governatori e i ministri per una consultazione sul numero degli Stati, il punto più dolente su cui attendiamo un accordo da settembre del 2018. I rappresentanti dei governi locali e nazionale hanno votato all’unanimità a favore del mantenimento dei 32 Stati, facendo capire la totale riluttanza a venire incontro alle richieste delle opposizioni e, quindi, di essere pronti alla guerra.Cambiavano quindi i contesti, perfino la terminologia politica e tutti abbiamo pensato che la riapertura del conflitto fosse solo questione di giorni.
La Chiesa cattolica, in questa fase sconvolta da una questione interna, segue l’evolversi della situazione in silenzio. (L’Arcivescovo di Juba, Mons. Stephen Ameyu Martin Mulla, accolto con favore popolare nel suo nuovo incarico a dicembre del 2019, è oggetto di una campagna diffamatoria ad opera di un gruppo di fedeli e sacerdoti che lo accusano di essere poligamo e di avere figli. La questione è allo studio di una commissione di inchiesta della Santa Sede, ndr). In molte chiese si è però pregato intensamente e si può immaginare con che sollievo abbiamo appreso la notizia del discorso del Presidente poche ore dopo che tutti gli esponenti dei governi avevano votato per il mantenimento dei 32 Stati”
Resta aperta la spinosa questione delle tre aree amministrative...
“Le tre aree sono la coda velenosa del decreto. Diciamo subito che l’area di Abyei non rappresenta un grosso problema, è una vecchia questione che non suscita molto interesse. Anche per Pibor il discorso è simile, era già esistente e non ha mai rappresentato una zona particolarmente appetibile. Il vero nodo è Ruweng, perché è stata creata come nuova area ed è ricca di petrolio, quindi molto appetita. Inoltre è abitata dalle etnie Denka (del presidente) e Nuer (di Machar). In ogni caso, il fatto che Machar sia arrivato a Juba, dimostra chiaramente la volontà di andare avanti, se il rifiuto fosse stato totale, non sarebbe mai rientrato. Più in generale, le parti che non accettano il nuovo piano, hanno manifestato dissenso con manifestazioni pacifiche, non ci sono stati incidenti. Non possiamo dire di essere in un clima di festa naturalmente, ma c’è maggiore ottimismo. Non c’è assolutamente minaccia di ritorno alle armi. Tanto di cappello ai sudsudanesi che sono riusciti a trovare un super compromesso”
Nella decisione improvvisa del presidente di aprire alle richieste dell’opposizione e accettare il “doloroso compromesso” sembra aver molto pesato il richiamo del Papa dello scorso aprile: concorda?
“Indubbiamente. Il presidente ha voluto rimarcare quanto sentisse il peso del gesto e del discorso che il Papa fece ai leader riuniti in Vaticano lo scorso aprile. Ha detto chiaramente che per lui e per tutto il popolo quell’evento rappresenta una vera e propria benedizione e non è pensabile farla svanire nel nulla, le conseguenze sarebbero disastrose. La via della pace permetterà a un Paese ricchissimo di uscire dalla crisi che lo attanaglia da troppo tempo e tutti, a partire dal Papa, si aspettano che la si imbocchi una volta per tutte”.
Come si procederà ora per varare un governo di unità nazionale e rispettare le scadenze?
“Sono giorni decisivi. Contiamo molto sulla pressione internazionale che organismi come Unione Africana, Unione Europea, Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo) e Stati Uniti stanno esercitando sui nostri leader politici. È stato ribadito con molta chiarezza che tutti gli aiuti allo sviluppo sono vincolati al raggiungimento della pace definitiva e al rispetto delle scadenze. Ciò rappresenta uno sprone eccezionale perché tutti sanno che senza accordo non ci saranno soldi. Credo che questa pressione, le intenzioni più miti a cui sembrano giunti i leader unitamente alla preghiera che ritengo abbia un grande potere, sono strumenti molto efficaci per uscire dalla crisi”.
Di recente ci sono stati due colloqui a Roma sul Sud Sudan: che impatto hanno avuto?
“I negoziati di Roma sono stati molto importanti. Per la prima volta si sono incontrati un rappresentante del governo e i capi dei gruppi di opposizione che non hanno firmato l’accordo del settembre 2018. La loro partecipazione è fondamentale nel Sud Sudan del futuro. Gli accordi di pace sono processi lunghissimi, l’ integrazione di questi gruppi nel governo è l’obiettivo finale ma sarà certamente lunga. I due passaggi a Roma e quello che ci sarà a marzo sono importanti perché per rinascere il Paese ha bisogno che tutti si sentano parte di esso. Per quanto riguarda il nuovo corso impresso dal discorso del presidente e la decisione di ridurre a 10 gli Stati, è indipendente dai colloqui di Roma, credo che abbia direttamente a che fare con la responsabilità che il Papa ha chiesto ai leader politici e al fatto che abbia annunciato l’intenzione di venire a farci visita quest’anno: se c’è una guerra, il sogno di vedere Francesco in Sud Sudan svanirà.”