Droghe e tossicodipendenze in America Latina: modelli di intervento ecclesiale comunitario
di Silvano Malini
Le esperienze virtuose dei membri della Familia Grande Hogar de Cristo in Argentina e gli interventi di prossimità dei Servidores del Servidor in Colombia, i movimenti in Brasile: così le comunità cristiane si impegnano nella prevenzione e nel recupero di giovani caduti nella rete delle dipendenze
L’America Latina è la terra della cocaina e della marihuana. In Colombia, Perù e Bolivia sono i maggiori produttori mondiali di cocaina, mentre dal Messico e dal Paraguay (oltre a Perù e Bolivia) provengono principali raccolti di marihuana. Dalla “cucina” della cocaina, si ottiene poi la micidiale “pasta base”, la “droga dei poveri”, anche chiamata crack o paco, un vero flagello che distrugge irrimediabilmente neuroni, inebetisce e causa reazioni violentissime.
La Chiesa continentale, così come Papa Francesco, ha più volte e duramente condannato il consumo (e l’intera filiera, che lo rende possibile) delle droghe psicoattive, mettendo al centro della problematica la persona tossicodipendente. “Droghe e dipendenze: un ostacolo allo sviluppo umano integrale” è il titolo di una conferenza internazionale tenutasi in Vaticano nel dicembre del 2018, promossa dal Dicastero per il Servizio allo Sviluppo Umano Integrale (DSSUI). Durante l’evento, Papa Francesco ebbe a dire, tra l’altro: “Per vincere le dipendenze è necessario un impegno sinergico, che coinvolga le diverse realtà presenti sul territorio nell’attuare programmi sociali orientati alla salute, al sostegno familiare e soprattutto all’educazione. In questa prospettiva, mi unisco agli auspici che avete formulato nella vostra Conferenza, affinché vi sia un maggiore coordinamento delle politiche antidroga e anti-dipendenze, creando reti di solidarietà e prossimità nei confronti di coloro che sono segnati da queste patologie”.
La Chiesa è quindi in prima linea nel combattere la droga come patologia (la dipendenza) in modo integrale, ed è convinta che si tratti di un problema complesso e dalle molte cause. Tuttavia la mancanza di valori morali, di armonia interiore e, fondamentalmente, di amore, sono i principali detonatori. “Fondamentalmente il dipendente è un ‘malato di amore’; non ha conosciuto l’amore, non sa amare nel modo giusto perché non è stato amato nel modo giusto”, si legge nel testo “Famiglia e Tossicodipendenza: dalla Disperazione alla Speranza”, dell’allora Pontificio Consiglio per la Famiglia (1991). Il testo esprime la proposta della Chiesa “a coloro che vivono il dramma della tossicomaia”, ovvero “il progetto evangelico sull’uomo”. “L’amore di Dio (...) non vuole la morte, ma la conversione e la vita (Ez 18, 23)”. e “una vita integrale, la vita eterna”. A tutti gli uomini la Chiesa vuole “ridare la speranza” ed accompagnare nel cammino di Cristo: “ Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28).
Proprio in America Latina, e nel suo primo viaggio apostolico, in Brasile, Papa Francesco lanciò un avvertimento sui rischi della liberalizzazione della droga, ed affermò: “È necessario affrontare i problemi che sono alla base del consumo promuovendo una maggiore giustizia, educando i giovani ai valori che costruiscono la vita comune, accompagnando i bisognosi e dando loro speranza nel futuro”. Nella sua Argentina, il movimento dei "Curas Villeros" (sacerdoti che servono le parrocchie delle baraccopoli dell’arcidiocesi di Buenos Aires) sono da sempre impegnati su questo fronte. Di fronte al proliferare del crack come nuovo fenomeno che ha cambiato le “Villas” (“prima non c’era gente che dormiva per strada in questi quartieri. Ora sì”, hanno detto negli anni scorsi), davanti alla possibile promulgazione della depenalizzazione delle droghe, diciannove sacerdoti, tra cui l’attuale Vescovo ausiliare per la pastorale delle “villas de emergencia”, Gustavo Carrara, pubblicarono nel 2009 un documento fondante, che valse minacce di morte a don Pepe Di Paola. Il testo è considerato la prima presa di coscienza forte circa la necessità di un modello diverso di intervento, che partì proprio dall’ispirazione dell’allora cardinal Bergoglio e diede origine a un movimento ora nazionale, quello della "Familia Grande Hogar de Cristo" (“focolare di Cristo”). Allora ed in seguito, i Curas Villeros segnalarono la mancanza di adeguate politiche educative e di prevenzione, l’assenza dello Stato nel quartieri marginali e la mancanza di conoscenza della vita della gente in quei quartieri. Più tardi, segnalarono che ai giovani in quel contesto la droga giunge molto prima dell’istruzione, che un lavoro degno o che l’accompagnamento al quale hanno diritto. E, pur riconoscendo “le buone intenzioni di chi, mediante la depenalizzazione, vorrebbe non criminalizzare il tossicodipendente, avvertirono che la liberalizzazione implicherebbe “lasciare chi si droga nell’abbandono”.
La Familia Grande Hogar de Cristo è un modello efficace di intervento ecclesiale comunitario in questo campo e nell’integrazione sociale. La persona è al centro dal nascere stesso del movimento. Le parole del Card. Jorge Mario Bergoglio il Giovedì Santo del 2012, durante la lavanda dei piedi, furono una chiara ispirazione. “Bisogna ricevere la vita così come viene ed accompagnarla corpo a corpo”. I Curas Villeros le presero alla lettera, e cominciarono ad aprire le parrocchie a chiunque, senza precondizioni. Dapprima con l’aiuto di agenti pastorali - ben presto insufficienti numericamente – e poi degli stessi “assistiti”, cominciarono ad accompagnare fisicamente chi aveva bisogno di disintossicarsi o di quant’altro ai centri che se ne occupavano. Nacquero poi i Centri di Quartiere (“Centros barriales”), nuclei nevralgici di un sistema che è oggi diffuso in quasi tutte le province argentine. Si tratta di centri diurni nei quali si riceve una prima assistenza, personalizzata, e si accompagna la persona nel processo di disintossicazione, sia in modo ambulatorio che in comunità terapeutiche o fattorie (a seconda dei casi), includendo tutte le dimensioni della vita: dalla documentazione all’assistenza giuridica e sanitaria, allo studio o al lavoro, realizzato in cooperative ed attività ludiche trasformatrici.
Esistono anche alloggi solidali e strumenti di recupero per chi non è ancora pronto alla disintossicazione completa, in modo da avviare in processo in un ambito protetto e sicuro. “Ai nostri Centri di Quartiere si avvicinano coloro che sono soli, orfani, desolati, malati, e anche chi ha la salute compromessa dal consumo di droga. Lì ci avviciniamo alla storia personale di ognuno, che è sacra, e accompagniamo il percorso del corpo e dell’anima, affinché ciascuno si possa riconoscere persona, immagine e somiglianza di Dio, con la possibilità di amare e vincolarsi agli altri”, spiegano i membri della Familia Grande Hogar de Cristo.
Nelle grandi città, dove si amplifica il rischio della solitudine e della depersonalizzazione, fioriscono carismi come quello dei Servitori del Servitore, nati in Colombia per “servire Cristo che vive nel fratello bisognoso”, sul modello del Buon Samaritano, e particolarmente i più poveri, gli abbandonati e i senzatetto. Sono le "opere di misericordia" le prime espressioni della loro carità, che si esprime poi nell’accompagnare la persona nell’ “accettare e rivendicare le propria dignità di figlio di Dio” e nel ricomporre la sua vita famigliare e sociale, per quanto possibile. I Servidores del Servidor - nati da un gruppo di preghiera formato da laici dopo la visita di Giovanni Paolo II, poi animato da un sacerdote gesuita che aveva visitato Medjugorie - sono un segno profetico per il cammino di santità di altri laici, che invitano a servire il prossimo, sulla base di una dimensione contemplativa (in particolare adorazione eucaristica e rosario) e di una spiritualità che hanno attinto dal francescanesimo e dall’esempio di san Pio da Pietrelcina. Sono laici, ma vestono un semplice saio senza maniche per poter essere riconosciuti facilmente dai destinatari della loro azione. Oggi sono attivi in quattro diocesi colombiane, due statunitensi e una paraguaiana. In Colombia, come afferma, in dialogo con l’Agenzia Fides, il direttore nazionale della Pastorale Sociale, mons. Héctor Fabio Henao, “si punta alla prevenzione, giacché il consumo di sostanza psicoattive è a livelli preoccupanti, con l’aggravante dell’iniziazione prematura, spesso a partire dalla elementari. La esperienza della Colombia - continua il sacerdote - mostra che è chiave il conivolgimento delle comunità, dai vincoli familiari alle parrocchie, che sono spazi sicuri per l’ascolto, necessario per permettere di ritrovare il senso della vita e creare speranza”. Mons. Henao spiega che chi consuma droga proviene in genere da un ambiente familiare, comunitario o sanitario che “ha bisogno di umanizzarsi”. L’ascolto misericordioso e umano è fondamentale, insieme alla creazione di una vera “cultura della prevenzione”, mediante la quale “ogni agente pastorale, gruppo o movimento sia in grado di assistere in un primo momento chi ne ha bisogno”. “Formare a una cultura della prevenzione è una delle sfide di oggi”, conclude.
In Brasile sono nate diverse istituzioni votate alla cura dei tossicodipendenti, varie delle quali, di ispirazione francescana. Dalla pratica della Parola di Dio, che animò Nelson Giovanelli, giovane del Movimento dei Focolari della parrocchia del frate minore tedesco Hans Stapel, nacque nel 1983 a Guatatingueta (San Pablo) la Fazenda (“fattoria”) della Speranza, oggi presenti in nove paesi latinoamericani e 13 tra Africa, Europa ed Asia. Motivato dalla frase della Scrittura proposta dalla parrocchia per quel mese, Nelson si avvicinò a un baretto dove si riunivano ragazzi che si drogavano, di fronte al quale passava ogni giorno. Dall’amicizia, venne la prima richiesta di aiuto che poi, d’accordo con “frei Hans”, si materializzò in una piccola comunità terapeutica il cui “metodo” di riabilitazione era costituito da convivenza e lavoro animati dalla vita del Vangelo. Poco dopo, si aprì anche la prima casa femminile.
La Fraternità San Francesco d’Assisi nella Provvidenza di Dio è frutto della vocazione di don Nélio Belotti, giovane sacerdote diocesano che, in seguito a un ritiro, poco prima dell’ordinazione, sentì rifiorire con forza la chiamata a occuparsi dei “lebbrosi” e vivere come il “poverello di Assisi”. Scoprì carismaticamente che i tossicodipendenti sono i lebbrosi di oggi, che nessuno vuole “toccare”, e l’anno seguente, d’accordo col suo vescovo - che gli diede il nome di Francisco e un abito marrone da frate - e grazie alla collaborazione della comunità parrocchiale, fondò nella piccola località di Jaci (stato di San Paolo) della quale era parroco, una casa per la disintossicazione, nella quale cominciò a vivere con due volontari e sette pazienti. Preghiera, lavoro e coscientizzazione sono da allora i pilastri dell’associazione e della fraternità (maschile e femminile), mentre il processo di recupero comincia dall’assunzione di un diverso stile di vita, continua con la “coscientizzazione" (accettare la dipendenza, i limiti personali che rendono difficile liberarsene e la necessità di aiuto) per poi culminare con la reintegrazione, dapprima personale e poi sociale. Ben presto la Fraternità cominciò a ricorrere all’aiuto di medici e psicologi e comprese la necessità di un’assistenza sanitaria integrale, specie per i numerosi casi di AIDS. Era un’epoca (la fine degli anni ‘80) nella quale la malattia era ancora un tabù. L’opera si estese allora ad ospedali e farmacie specializzate, e si ingrandì fino a raggiungere le cinque regioni del Brasile, Haiti e il Portogallo. In seguito alla visita di Papa Francesco al loro ospedale di San Paolo, nel 2013, cominciò un progetto che portò a varare la maggiore e più completa imbarcazione-ospedale del paese, con un bacino di utenza di oltre 700.000 persone in più di mille località costiere in Amazzonia, alle quali presta anche assistenza spirituale ed evangelizzazione. La Fraternità è considerata oggi in Brasile come una delle entità più serie, estese (con una media di 800 pazienti l’anno e un totale di oltre 40.000 solo nello stato di San Paolo) e con la tecnologia più avanzata nel suo campo d’azione. Interventi simili sono presenti in tutti i Paesi della regione, spesso animati dalla Caritas – Pastorale Sociale.
Occorre infine ricordare che la droga più letale e maggiormente consumata in America Latina è l’alcool, una sostanza legale e culturalmente accettata e, in certi casi, persino promossa. In Paraguay - pero fare solo un esempio - si bevono giornalmente più litri di bevande alcoliche che di latte, in un Paese con 56 % della popolazione al di sotto dei 30 anni… Come ben sottolinea la Caritas cilena, il consumo di alcool è la principale causa di morte e di delitto. I dati della Croce Rossa parlano, per quanto riguarda il Cile, dall’elevata alcolemia si origina il 50 % delle morti per incidenti stradali e il 65 % degli omicidi. Sotto l’influsso di alcolici si commette il 71,4 % degli stupri e il 79 % dei furti. È un allarme sociale, oltre che morale, su cui occorre intervenire per sperare in un risanamento della società.