L'America Latina all’avanguardia nel “laboratorio” della missione e della pastorale urbana per le grandi città
di Silvano Malini
Nelle megalopoli latinoamericane la Chiesa, già dalla fine degli anni ’80, ha cominciato a sentirsi interpellata fortemente dalla postmodernità e dai cambiamenti socioculturali prorompenti, per un rinnovato annunzio del Vangelo, secondo il paradigma di "toccare, interpretare e trasformare" con il dono di Gesù Cristo
A partire dalle sfide che interpellano l’azione della Chiesa nelle città in questo “cambio di epoca”, l’America Latina è all’avanguardia nella riflessione teologico-pastorale e nelle proposte di pastorale urbana (P.U.). Città del Messico e Buenos Aires sono i luoghi dove la Chiesa, verso la fine degli anni ’80, ha cominciato a sentirsi interpellata fortemente dalla postmodernità e dai cambiamenti socioculturali prorompenti nelle megalopoli.
“Considero corretto il giudizio di Carlos Maria Galli, teólogo argentino, il quale afferma che la pastorale urbana è un contributo originale della Chiesa latinoamericana e caraibica alla ‘Catholica’ prima e dopo Papa Francesco”. Sono parole del cardinale Lluís Martínez Sistach, arcivescovo emerito di Barcellona, uno dei promotori della Pastorale delle Grandi Città insieme al cardinal Jorge Mario Bergoglio. È d’accordo don Benjamín Bravo, teologo e docente di P.U. intervistato dall’Agenzia Fides: “Effettivamente la P.U. è di matrice latinoamericana perchè parte da una situazione tipica della regione, di religiosità di fondo, nella quale la maggioranza delle persone, anche anche se non praticanti, credono in Dio e lo chiamano così, e non muove dall’esperienza europea della de-sacralizzazione e della secolarizzazione della postmodernità. Anche perchè da noi la modernità ha influito per 30 anni: non ha lasciato molto”. La P.U. “non è lo stesso che una pastorale nell’urbe”, ebbe a dire anni fa Jorge Eduardo Scheinig, attuale vescovo ausiliare di Mercedes-Lujan. “Pastorale nell’urbe è fare ciò che abbiamo sempre fatto nel paradigma della cristianità. La P.U. è una pastorale nuova perchè le città generano multiculturalità”, concluse. E sebbene oggi stiamo passando rapidamente a un mondo quasi del tutto urbanizzato (nel 2050 vivrà nelle città il 75 % della popolazione mondiale – oggi è urbano l’80 % degli abitanti delle Americhe e dell’Europa Occidentale) per il cardinal Martínez Sistach “in generale non cresce nella stessa proporzione l’interesse per una pastorale urbana e per le grandi città, ogni giorno più necessaria e urgente”. Secondo il prelato, autore di un articolo nel supplemento culturale della rivista cattolica spagnola Vida Nueva, il fenomeno è ancora più accentuato dalla “metropolizzazione accelerata del nostro mondo” che “va oltre le statistiche. Molte zone considerate rurali vivono in realtà económicamente e culturalmente nell’orbita delle metropoli”. Inoltre, “i media ‘urbanizzano molti aspetti della vita”. In America Latina, in fenomeno si è gestato a partire dagli anni ’60, con il drammatico aumento delle baraccopoli, ed ha cominciato a destare l’interesse della Chiesa alla fine degli anni ’80, in modo particolare in Argentina e in Messico. Ha prodotto nella regione metodologie quali le missioni urbane, le missioni di strada (vedi Fides 21.5.2019) , le comunità ecclesiali non tradizionali (vedi Fides 11.05.2019), le pastorali settoriali o per ambiti professionali e, in epoche recenti, esperienze come il catechismo in case di famiglie, le pastorali in “ghetti giovanili” (ambienti punk, emo, etc.), parrocchie personali in aziende (vedi Fides 26.4.2019), carceri e ospedali, azioni permanenti diurne e notturne di evangelizzazione tra senza tetto, oltre a produzioni accademiche, specializzazioni e corsi terziari presso università. “È un laboratorio”, spiega all'Agenzia Fides don Eloy Díaz, vicario pastorale dell’arcidiocesi di Città del Messico. “In un ‘cambio di epoca’ è molto difficile avere un sistema, che non funziona in una fase di riconfigurazione sociale. Si tratta di sperimentare e documentano esperienze, successi e fallimenti”. Tra il 1998 e il 99, sei parroci della capitale messicana, diocesani e gesuiti, cominciarono ad incontrarsi mensilmente, quasi da subito con alcuni laici (un sociologo, un'esperta di comunicazione, un maestro e una casalinga) per cercare e scambiarsi le risposte pastorali che ciascuno stava provando ad applicare nei rispettivi posti di lavoro o ambiti d’azione, in quello che fu il nucleo fondante dell’associazione Pastorale Urbana in Rete. Don Díaz, attuale presidente dell’associazione, racconta a Fides che il gruppo nacque in un momento in cui il “cambio d’epoca” aveva ormai modificato fortemente la vita quotidiana degli abitanti delle città, dopo la fine del sistema culturale della cristianitá, quando omai la Chiesa aveva perso del tutto e definitivamente il ruolo di entità culturale “che impostava le norme di comportamento e offriva un senso della vita alle persone”. Occorreva offrire la fede in un contesto nel quale, a differenza dell’ambito rurale, “le persone cominciavano ad avere altri sensi di vita e valori e che erano prevalentemente quelli cristiani”. Don Benjamín Bravo, tra i fondatori dell’associazione, spiega che “i laici aiutarono ad ampliare la visione”. Parafrasando il metodo del “vedere, giudicare ed agire” in uso tutt’oggi nella Chiesa latinoamericana, il sacerdote afferma: “Ci rendemmo conto che era necessario ‘toccare, interpretare e trasformare’, e cominciammo a ‘toccare la città’ ovvero a uscire incontro ad essa. Fu molto benefico, perchè cominciammo a formare i nostri laici insieme, visitando con loro luoghi significativi, che ‘parlavano’, dove la gente andava a cercare un senso alla vita, risposte al caos, alle loro ‘rotture interne’ o alle domande esistenziali”. Andarono negli stadi, nei luoghi dove la gente accudiva per liberarsi dal malocchio o per farsi indovinare il futuro, negli ambienti della lotta libera, negli ex cinema trasformatisi in chiese evangeliche che promettevano “¡smetti di soffrire!”, in discoteche, club notturni, etc. “Luoghi dove si cercava un tipo di risposta religiosa, che non si cercava più nella Chiesa Cattolica” afferma don Bravo. “Eppure la gente continuava e continua ad essere molto devota, non era secolarizzata, come in Europa. Trovammo poi spiegazioni semiotiche e psicologiche che ci aiutarono a capire questi fenomeni”. E cominciarono a impartire formazione ad agenti pastorali. “Quando l’allora cardinal Bergoglio ci invitò a Buenos Aires, trovammo che là avevano trovato certe vie d’uscita, e ci arricchimmo molto. Cominciarono ad apparire concetti che più tardi inclusi nella Evangelii Gaudium come le ‘città invisibili culturali’, abitate trasversalmente da persone accomunate dagli stessi desideri e dolori profondi, dal non senso, dal caos, e anche aneliti che avevano a che fare non solo con gli altri ma anche con l’Altro, che qui in America Latina, a differenza dell’Europa (dove lo si chiamava “mistero”, “energia”, etc), continuavamo a chiamare Dio”. Poi l’aspirazione di un’incidenza dell’evangelizzazione nella città si “contagiò” a Guadalajara, la seconda urbe del Messico, che cominciò lentamente a formalizzarla a livello diocesano. “A Buenos Aires questa pastorale è nata quasi naturalmente, come risposta alle sfide di una città cosmopolita e multiculturale, che obbliga ad essere creativi”, illustra alla Fides mons. Enrique Eguía, vescovo ausiliare e vicario pastorale dell’arcidiocesi della capitale argentina. È stata motivata “dalla multiculturalità e dal diverso modo di vivere la fede” nella città, dove c’è “una porzione di fedeli che vive la vita sacramentale e quella della grazia avendo presente i meriti necessari per la salvezza, con coscienza ecclesiale forte, ve ne è una per la quale è prioritaria la coscienza di essere figli di Dio e il vivere d’accordo a questa digntità, che si manifesta nella pietà popolare, nella quale non importa tanto il merito ma le espressioni naturali di fiducia in Dio e le manifestazioni della solidarietà tra pari”. Vi sono “quartieri dove la ‘chiesa domestica’ agisce, e altri dove i bambini imparano il segno della croce nella scuola parrocchiale”. Senza contare le migrazioni, in primis di paraguaiani, boliviani e peruviani, con le loro feste e devozioni tradizionali. “Ai tempi del cardinale Bergoglio, poi”, continua il vescovo ausiliare, “passammo da un modello fondato su piani pastorali con progetti, azioni e obiettivi - che la crisi socioeconomica degli anni 2000 fece saltare, per l’impossibilità di prevedere alcunchè - a una pastorale ‘di attitudini’, nella quale importano di più gli atteggiamenti missionari”. Il futuro Papa invitava “ad andare nelle periferie, ad essere vicini a chi ha bisogno, a lavorare con entusiasmo, all’accoglienza e alla bontà, e a ‘santuarizzare’ le parrocchie e la città stessa, come modello di Chiesa in cui tutti si sentano accolti; e, una volta accolti, si sentano accompagnati a crescere nella fede”. La conseguenza di ciò - conclude mons. Eguía - è, concettualmente, la possibilità che ogni cittadino possa “incontrarsi con l’amore di Dio per le strade della città”. Di lì la necessità di missioni in spazi pubblici, lungo i viali della metropoli (che in una giornata quaresimale mobilitano 1.400 parrocchiani) e iniziative quali le “tende missionarie” in piazze di gran circolazione. Le distanze che i fedeli percorrono quotidianamente con i relativi tempi di spostamento sono un fattore che incide nel senso di appartenenza ecclesiale. Si vive tra la parrocchia di residenza, quella di riferimento del luogo di lavoro e quella della scuola dei figli. Occore quindi generare “un’appartenenza diocesana, attraverso azioni e proposte ampie, che coinvolgono tutti - parrocchie, movimenti laicali, congregazioni religiose e scuole cattoliche - indipedentemente dal territorio, come le commissioni diocesane per i giovani o per le ‘villas de emergencias’ (le baraccopoli) . ‘Il tutto è superiore alle parti’ era un concetto già da allora presente in mons. Bergoglio”. In termini missionari sono rilevanti anche le azioni promosse ed organizzate da laici, che non dipendono dai sacerdoti, che offrono ritiri spirituali o incontri settoriali, per esempio nel mondo sindacale, in quello bancario, etc. “La pastorale urbana non si sviluppa senza un ampio e impegnato ruolo dei laici attivi nei loro ambienti lavoro”, conclude mons. Eguía. Prima di concludere il suo ministero episcopale a Buenos Aires – spiega il vescovo – il card. Bergoglio invitò altre chiese particolari ad incontri regionali di riflessione e scambio circa la P.U., a cui parteciparono delegati messicani e di archidiocesi argentine come quelle di Córdoba e di Rosario, con le quali si iniziò un lavoro congiunto “per la pastorale degli ambienti marginali, propri delle aree urbane”. Da tali incontri si originarono poi corsi di formazione teologico-pastorali in Cile, in Messico e in Colombia, presso il CELAM. In Messico si realizzarono congressi internazionali sin dall’anno 2000, con presenze anche dal Perù e dall’Uruguay. Dal primo Congresso Americano di Pastorale Urbana (vedi Fides 10.10.2018) di Guadalajara, è emersa la linea di cominciare “qualsiasi corso di P.U. con una prima giornata di missione, per ‘toccare la città’. Altrimenti, sarà solo teoria senza esperienza vitale”, afferma don Bravo. Secondo il teologo messicano, la P.U. si diffonderà “per contagio, perchè nasce dal non sapere onestamente che fare per una città e cerca di vedere chi ha trovato una stradina o una speranza”. Le prospettive? “Occorre sapere che esistono due tendenze forti: chi crede che le strutture attuali di evangelizzazione come le parrocchie territoriali siano soluzioni per una grande città, e chi è convinto che occorre piuttosto sostenere strutture come unità pastorali, parrocchie personali ed altre, che hanno a che fare con culture e non con territori ed elaborano strumenti di evangelizzazione che tengano in conto le complessità del mondo lavorativo e del pluralismo culturale nelle metropoli”. Il docente ricorda che “Paolo VI lodò l’arcidiocesi di Parigi quando il suo arcivescovo parlava di organizzarla preparando un settore del clero per il mondo operaio, ed altri per la gente della notte, per la gioventù, per i migranti, per gli intellettuali... Il futuro va in questa direzione. In quel momento fu una visione, che si concretizzò solo - e per un momento - per il mondo operaio e per quello della strada. Se oggi non rispondiamo alle diverse culture, alle ricerche plurali di senso delle metropoli e ai loro mondi professionali-lavorativi, a ricerche plurali di senso di vita”, conclude il teologo, “non creiamo ponti con i gli abitanti delle città”.