Il Sudan in ebollizione: tra crisi economica, tensione sociale, abuso della libertà
di Enrico Casale
La gente scende per strada per manifestare. Inizialmente la protesta aveva preso di mira l’aumento dei prezzi dei carburanti e del pane. Successivamente si è spinta a chiedere le dimissioni del presidente Omar al Bashir. La libertà di coscienza e di religione sono sotto pressione. La missione della Chiesa va avanti, nonostante le difficoltà.
Il Sudan è in fiamme. Dal 19 dicembre, quotidianamente, la gente scende per strada per manifestare. Inizialmente la protesta aveva preso di mira l’aumento dei prezzi dei carburanti e del pane. Successivamente si è spinta a chiedere le dimissioni del presidente Omar al Bashir, la fine del regime del National Islamic Front Party e la nascita di un sistema democratico che preveda un’alternanza al potere.
La repressione da parte del regime è stata dura. «Finora abbiamo arrestato 816 manifestanti», ha dichiarato lunedì 7 gennaio il ministro degli Interni Ahmed Bilal Osmane davanti al Parlamento di Khartum. Cifre smentite dall’opposizione che parla di «Almeno 1.100 manifestanti arrestati» e di torture sistematiche. «Le persone arrestate sono state torturate – spiega Mohamed Al-Asbat, portavoce dell’Association of Professionals -. Gli studenti, i disoccupati o gli impiegati pubblici vengono liberati quasi subito, ma subiscono comunque percosse e sono umiliati. Particolarmente vessati sono invece i professionisti: medici, giornalisti, architetti, insegnanti, avvocati, giudici. Vengono incarcerati e torturati per giorni».
Sul piano economico, la Banca centrale del Sudan ha annunciato nuove politiche per il 2019, al fine di raggiungere la stabilità finanziaria e frenare l’inflazione. In una nota ufficiale, emessa a fine 2018, la banca ha annunciato l’intenzione di stabilizzare il tasso di cambio e di aumentare la fiducia nel sistema bancario. Interventi che potrebbero non essere risolutivi. A rimetterci il posto potrebbe essere proprio il presidente Omar al Bashir che potrebbe diventare il capro espiatorio di tutti i mali del Paese.
Proteste trentennali
In realtà, le proteste contro il presidente Omar al Bashir non sono una novità per il Sudan. «Fin dal 1989 anno del suo insediamento - spiega Amgad Fareid Eltayeb, attivista per i diritti umani e blogger, in un recente report realizzato per conto della Conferenza episcopale sudanese -, si sono susseguite manifestazioni che ne chiedevano e ne chiedono le dimissioni.
Per far fronte a queste proteste, il regime ha creato un onnipresente apparato di sicurezza e ha cercato di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica con le emergenze scaturite dalla guerra nelle regioni meridionali (che nel 2011 ha portato alla nascita del Sud Sudan) e nel Darfur. In queste guerre civili si è assistito alle peggiori violazioni dei diritti dell’uomo: violenze sessuali, bombardamenti indiscriminati dei villaggi, torture, uccisioni di leader politici, ecc. Ed è per questi motivi che al Bashir è stato accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità (e su di lui pende tuttora un mandato d’arresto internazionale)».
Nel Paese non ci sono garanzie politiche.
Il National Congress di Bashir è al potere da trent’anni. Agenti di polizia e funzionari dei servizi segreti rappresentano gli occhi e le orecchie del regime, segnalando e arrestando chiunque si dimostri critico nei confronti della politica. Il governo foraggia anche milizie armate proprio per sradicare qualsiasi tentativo di ribellione.
Libertà religiosa a rischio
Un’oppressione che tocca anche la libertà religiosa, come ha ben messo in evidenza il «Rapporto annuale sulla libertà religiosa», pubblicato nel giugno 2018 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Nel documento, il Sudan è accostato a nazioni che tradizionalmente limitano le pratiche religiose come Arabia Saudita, Pakistan, Cina, Corea del Nord, Iran e Myanmar. Sotto accusa è l’applicazione arbitraria che viene fatta della legge islamica che crea un clima di paura. «Le autorità – è scritto - arrestano, intimidiscono e incarcerano il clero cristiano e i membri delle Chiese cristiane per motivi religiosi. Negano i permessi per costruire chiese, chiudono gli edifici religiosi esistenti e le scuole ecclesiastiche, censurano i leader religiosi».
Il governo sudanese rigetta le accuse affermando che a cittadini, stranieri e rifugiati viene assicurata ampia libertà di religione grazie all’esistenza di 844 chiese che gestiscono 319 istituti scolastici e 173 centri culturali e sanitari. I funzionari statali, denuncia però Human Rights Watch, organizzazione che lavora in difesa dei diritti umani, vietano la costruzione di nuove chiese. Nel 2013, il governo ha affermato che non c’era più bisogno di nuove chiese poiché la maggioranza dei cristiani era composta da sudsudanesi che, dopo l’indipendenza nel 2011, era tornata nel suo Paese. L’ultima chiesa è stata abbattuta nel settembre del 2017. L’edificio era stato costruito nel 1983 in un distretto orientale della capitale Khartum. Aveva tutti i documenti in regola, ma questo non è valso a salvarla dalla demolizione. Le donne non islamiche hanno dovuto affrontare frequenti accuse di «abbigliamento indecente» che hanno portato a numerose condanne giudiziarie. Le persecuzioni non riguardano solo i membri delle diverse Chiese cristiane, ma anche i musulmani.
La missione della Chiesa
La Chiesa cattolica, in questa cornice, porta avanti la sua missione e le attività pastorali nonostante le difficoltà. “La separazione tra Sudan e Sud Sudan ha lasciato un grosso vuoto a livello ecclesiale qui nel Nord” ha detto all’Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Yunan Tombe Triller Kuku Andali, Vescovo di El Obeid, nella parte nord-occidentale del Sudan. “A causa della divisione del Paese, diversi sacerdoti, religiose e catechisti sono tornati nelle loro terre di origine, cioè nel nuovo Stato, il Sud Sudan. Abbiamo risentito soprattutto la mancanza di catechisti per animare i circa 200 centri pastorali distribuiti sull’intero territorio della diocesi”, rileva.
“D’altro canto – prosegue il Vescovo- la guerra in Sud Sudan ha fatto sì che nella nostra diocesi vi siano un gran numero di rifugiati sud-sudanesi. Il numero dei rifugiati registrati è di oltre 200.000 persone, ma vi sono molti rifugiati che non sono registrati. Più della metà dei rifugiati registrati sono cattolici e questo comporta una sfida sul piano pastorale perché siamo chiamati a offrire loro un’assistenza non solo umanitaria ma anche spirituale. Stiamo quindi formando dei catechisti tra i rifugiati accolti nei campi”.
La diocesi di El Obeid si estende per 888.939 km2, conta 11.842.000 abitanti dei quali 95.000 sono cattolici. “La maggior parte dei cristiani locali vive sui monti Nuba” racconta Mons. Andali. “La maggiore difficoltà che riscontriamo è assicurare un’educazione religiosa nelle scuole statali. L’educazione religiosa è obbligatoria nelle scuole gestite dallo Stato ma questo non stampa i libri per la formazione dei cattolici”.
Secondo Mons. Andali “in Sudan non esiste una vera e propria libertà religiosa, ma una tolleranza nei confronti delle altre religioni diverse da quelle islamica". "Noi cattolici - osserva - possiamo svolgere le attività all’interno delle nostre vecchie chiese, ma non fuori. I regolamenti statali vietano la cessione di terreni alla Chiesa e la costruzione di nuove chiese. Grazie all’aiuto di donatori nella Chiesa universale abbiamo acquistato abitazioni private per svolgere alcune delle nostre attività pastorali. In questo modo possiamo raggiungere i nostri fedeli nelle loro case per pregare con loro, anche nelle zone dove non ci sono delle vere e proprie chiese”.
La crisi economica morde
In questa delicata situazione politica, si è innescata una profonda crisi economica. Negli ultimi trent’anni, Khartum ha strutturato la sua economia sulle esportazioni di materie prime, in particolare gli idrocarburi. Prima del 2011, Sudan e Sud Sudan disponevano congiuntamente di risorse petrolifere stimate tra i 5 e i 6,7 miliardi di barili, attestandosi al quinto posto tra i Paesi africani produttori di gas e petrolio. Con l’indipendenza di Juba, l’80% dei pozzi petroliferi è rimasto al Sud Sudan. Venendo a mancare tale risorsa, le conseguenze per l’economia sudanese sono state durissime. Si è prosciugata un’importante fonte di valuta estera pregiata, i prezzi sono aumentati e l’inflazione è schizzata al 160%. Per ridurre la fiammata dei prezzi, il governo ha ridotto la possibilità di prelevare contante dalle banche, peggiorando così le condizioni della gente che non ha più le risorse per acquistare i beni di prima necessità.
«La popolazione è arrabbiata anche perché deve assistere a una diffusa corruzione che coinvolge i piani alti del potere – continua Amgad Fareid Eltayeb –. Più si sale di livello nella gerarchia del potere e maggiore è la corruzione.
Ciò grava in modo pesante su tutta l’economia nazionale. In particolare sul settore bancario dominato da “crediti facili” concessi senza le adeguate garanzie agli uomini del regime e investimenti improduttivi».
Sullo sfondo si profilano le elezioni presidenziali del 2020. Alle urne potrebbe presentarsi nuovamente il presidente al Bashir. A dicembre, 294 deputati hanno presentato all’Assemblea nazionale una proposta di emendamento della Costituzione per permettergli di candidarsi per un quarto mandato quinquennale.
La riforma gli darebbe anche maggiori poteri, permettendogli di dimissionare i governatori, che non sono di nomina presidenziale, ma eletti. La proposta di riforma della Costituzione, secondo quanto riporta il quotidiano «Sudan Tribune», era attesa perché da tempo il partito del presidente sta discutendo dell’opportunità di ricandidarlo al prossimo turno elettorale. Lui stesso, in un’intervista all’emittente televisiva in lingua araba «al Mustaqilla», ha detto di essere pronto a ricandidarsi e «a lavorare per migliorare le condizioni di vita del popolo e la sicurezza al servizio del Paese».
A sfidarlo potrebbe esserci Salah Quosh, ex capo dell’intelligence che nel 2012 è stato arrestato con l’accusa di aver pianificato un colpo di Stato. Quosh, che ha duramente condannato la politica economica del governo e non ha mai nascosto le sue ambizioni di succedere a Bashir. Ma Quosh non sarebbe l’unico candidato a sfidare il presidente. Il gruppo di islamisti più intransigenti potrebbe sostenere l’ex collaboratore di Bashir, Nafie Ali Nafie, che si recentemente si è schierato contro la ricandidatura del capo dello Stato e ne ha preso le distanze. Infine resta l’incognita delle forze armate. Finora hanno sempre sostenuto il regime, partecipando alle politiche cleptocratiche di Bashir. I militari continueranno a sostenerlo? Oppure preferiranno sostituirlo con un nuovo presidente più giovane e meno compromesso?