Tra Etiopia ed Eritrea il miracolo della pace
di Enrico Casale
Tra Etiopia ed Eritrea il miracolo della pace
Lo storico accordo tra i due paesi segna la fine di vent’anni di guerra e di tensioni tra i due paesi. La crescita economica, sociale e democratica delle due nazioni era rimasta bloccata e il Corno d’Africa ha vissuto una lunga fase di instabilità. Ora ci si aspetta che la pace porti anche la democrazia.
L’accordo di pace siglato da Etiopia ed Eritrea il 9 luglio è un evento storico. Le firme del presidente eritreo Isaias Afeworki e del premier etiope Abiy Ahmed hanno segnato la fine di vent’anni di guerra e di tensioni tra i due Paesi. Guerra e tensioni che, di fatto hanno bloccato, la crescita economica, sociale e democratica dei due Paesi e hanno dato vita a un lungo periodo di instabilità nel Corno d’Africa.
Indipendenza e guerra
Per comprendere l’importanza dell’intesa occorre fare un passo indietro. Con la fine della seconda guerra mondiale, l’Eritrea, ex colonia italiana, è stata prima federata e poi annessa all’Etiopia. Dall’inizio degli anni Sessanta si è scatenata una guerra di indipendenza degli eritrei contro le forze del negus Hailè Selassiè e poi contro quelle di Manghistu Hailè Mariam. Il conflitto è durato trent’anni, un periodo lunghissimo in cui si è forgiata quella classe politica e militare che ha preso il controllo dell’Eritrea dopo l’indipendenza raggiunta nel 1993. Cresciuti nelle asprezze della guerriglia e poco avvezzi ai principi democratici, i politici eritrei si sono trovati spiazzati di fronte alla sfida di un Paese da ricostruire. I trent’anni di conflitto inoltre li avevano abituati a un odio quasi atavico nei confronti degli etiopi. L’Etiopia ha avviato un percorso simile, anche se meno duro. La classe politica di etnia tigrina ha iniziato a dominare il Paese, mettendo la sordina all’opposizione e alle altre etnie (gli amhara, che tradizionalmente avevano governato la nazione, e gli oromo).
Nel 1998 la tensione tra i due Paesi è andata aumentando fino sfociare nella guerra. Pomo della discordia, Badme, cittadina di frontiera sulla quale sia Asmara sia Addis Abeba vantavano la sovranità. Le forze armate si sono confrontate in un conflitto antico, fatto di assalti alla baionetta sulle scoscese montagne dell’Acrocoro abissino. In due anni sono morti tra i 60 e i 70mila uomini, forse di più. Di fronte a questa tragedia, nel 2000 Eritrea ed Etiopia hanno accettato l’istituzione di una commissione incaricata di stabilire i confini e porre così fine alle ostilità. Meno di due anni dopo, la commissione ha assegnato i confini contesi, Badme compresa, all’Eritrea. Le conclusioni non sono però mai state accettate da Addis Abeba che, da allora, ha mantenuto sul confine le sue truppe determinando una situazione di non guerra-non pace.
Questo contesto è servito a Isaias per rafforzare il suo regime. Con la scusa dello stato di emergenza, ha sospeso la Costituzione del 1997, ha imprigionato oppositori e ministri, intellettuali e compagni di partito che gli chiedevano di rispettare la democrazia. Ha quindi chiuso l’università e militarizzato lo Stato, imponendo il servizio militare da 17 a 50 anni, espulso missionari e Ong, perseguitato leader religiosi. In 20 anni, ha causato l’emigrazione di almeno due generazioni di eritrei. L’Eritrea è così precipitata agli ultimi posti nelle classifiche mondiali di sviluppo e libertà.
«Pochi hanno levato un grido di condanna - osserva Meron Estefanos, eritrea, attivista per i diritti civili -. Tra questi, c’è stata la Chiesa cattolica. La sua denuncia dei crimini commessi dal regime è entrata nella storia e rimane nei cuori di quelli che lottano a favore della libertà in Eritrea». Nel 1994, nella lettera pastorale di 38 pagine intitolata «Dov’è tuo fratello?», i quattro eparchi (vescovi) di Asmara, Barentu, Keren e Segeneiti hanno infatti puntato il dito contro il regime. «I nostri giovani - hanno scritto - fuggono verso Paesi dove c’è giustizia, lavoro e dove ci si può esprimere senza timore ad alta voce […] non ci sarebbe ragione di cercare nazioni dolci come il miele se uno vivesse già in un posto del genere». E hanno aggiunto: «I componenti di ogni famiglia oggi sono sparpagliati tra il servizio nazionale, l’esercito, i centri di riabilitazione, le carceri, con gli anziani lasciati indietro senza nessuno che si prenda cura di loro. Tutto questo sta rendendo l’Eritrea una terra desolata».
Una situazione che in Eritrea diventava sempre più insostenibile anche perché, il progressivo isolamento politico del regime, stava producendo effetti negativi anche sull’economia. L’agricoltura di sussistenza, le poche industrie e un commercio con l’estero asfittico hanno portato il Paese sull’orlo del baratro, con più del 50% della popolazione al di sotto della soglia della povertà (meno di due euro al giorno).
La pace
Le tensioni hanno iniziato a smorzarsi con l’arrivo al potere in Etiopia di Abiy Ahmed. Sotto l’onda delle proteste della popolazione oromo che ha iniziato a contestare le politiche governative e i pochi spazi democratici, la classe politica tigrina ha vacillato. Per far fronte al crescente malcontento, ha chiamato al potere un politico giovane, musulmano e di etnia oromo. Un uomo che già in sé rappresenta una rivoluzione in un Paese tradizionalmente cristiano e dominato da una piccola etnia.
Fin dal suo discorso di insediamento del 2 aprile, Abiy Ahmed ha fatto capire che la politica nazionale e regionale avrebbero subito una svolta. Nelle sue parole ha dato la disponibilità ad avviare un dialogo con gli oromo e a migliorare le relazioni con la vicina Eritrea. Detto fatto. Dopo pochi giorni ha revocato lo stato di emergenza interno, ha condannato le incarcerazioni illegali e le torture e ha aperto un tavolo con l’opposizione. Ma il vero colpo di scena è arrivato il 5 giugno, quando il premier etiope ha annunciato la disponibilità a rispettare l’accordo di pace con l’Eritrea e le demarcazioni dei confini. Da quel momento gli eventi si sono susseguiti vorticosamente. Dopo qualche giorno, il capo di Stato eritreo Afwerki ha accettato di inviare una delegazione per «valutare gli ultimi eventi in profondità e redigere un piano per le azioni future». Il 26 giugno Osman Saleh, il ministro degli Esteri eritreo, e Yemane Gebreab, consigliere del presidente eritreo, sono arrivati ad Addis Abeba e hanno messo le basi per un vertice tra Afeworki e Abiy Ahmed. L’8 luglio i due leader si sono incontrati ad Asmara e il giorno successivo hanno firmato l’accordo di pace. L’intesa prevede cinque «pilastri»: la fine dello stato di guerra; la ripresa della cooperazione politica, economica, sociale, culturale e di sicurezza; la ripresa delle relazioni commerciali, economiche e diplomatiche; l’attuazione dell’accordo sui confini; l’impegno a lavorare per la pace regionale.
Dietro questo accordo si celano motivi economici e geopolitici. Abiy è giovane, intraprendente, ma non ingenuo. Sa che lo sviluppo economico è figlio della stabilità. Se riuscirà davvero a riportare la pace, l’Etiopia potrà sfruttare i porti di Massaua e di Assab per poter esportare e importare le merci necessarie al suo sviluppo (e non sarà più costretta a rivolgersi a Gibuti). Da parte sua, Asmara godrà di una rendita di posizione che, comunque, le garantirà entrate certe dai dazi e un flusso di beni a prezzi minori per la propria popolazione. A volere la pace sono anche Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Sono loro gli attori che si sono mossi dietro le quinte per favorire l’intesa. Un Corno d’Africa stabile e vicino al blocco occidentale può rappresentare una pedina importante nel confronto con la Cina e, guardando al Medio Oriente, allo scontro con l’Iran (in particolare nello Yemen).
Le attese della Chiesa
Eritrei ed etiopi hanno accolto con gioia l’accordo. Anche la Chiesa cattolica eritrea ha salutato con entusiasmo il momento. «Dopo venti anni - ha dichiarato mons. Menghesteab Tesfamariam, eparca di Asmara, un aereo è atterrato ad Asmara, portando in Eritrea il premier etiope, Abiy Ahmed. Come leader religioso, rappresentante della Chiesa cattolica, ero tra quelli che lo aspettavano all’aeroporto. Questo abbraccio è stato commovente, bello. E migliaia di persone per le strade di Asmara e anche fuori dalla città hanno fatto festa. È quasi un miracolo».
Un miracolo che fa sognare, anche se c’è chi rimane con i piedi per terra. «Come Chiesa - osserva Mussie Zerai, sacerdote eritreo - siamo felici per l’intesa, ma al momento nulla è ancora cambiato. I detenuti politici non sono stati rilasciati e i militari non sono stati smobilitati. La Costituzione è ancora sulla carta. Ora aspettiamo e speriamo che la pace porti anche la democrazia».